Il controllo del pensiero
(Jiddu Krishnamurti)
(Jiddu Krishnamurti)
Da: Il silenzio della mente (Mondadori ed.)
Era stato educato
all’estero, disse, e aveva ricoperto una carica importante all’interno del
governo; ma più di vent’anni or sono aveva deciso di lasciare lavoro e pratiche
terrene per trascorrere in meditazione i giorni che gli restavano.
«Ho praticato molti
metodi diversi di meditazione,» disse «fino a raggiungere il controllo completo
dei miei pensieri, e questa conquista ha portato con sé determinati poteri e
forme di dominio su me stesso. ...
Ciò nonostante, un mio amico mi ha portato ad
assistere ad alcune delle tue conversazioni in cui tu rispondevi a una domanda
sulla meditazione, dicendo che generalmente, per come è praticata, essa è solo
una forma di autoipnosi, una semplice coltivazione di desideri proiettati da noi
stessi, anche se sofisticata. Mi ha colpito al punto da ricercare questa
conversazione con te; e considerando che ho dedicato la mia vita alla
meditazione, spero che potremo approfondire l’argomento.
Vorrei innanzitutto
spiegare il mio percorso di crescita. Mi resi conto da tutto ciò che avevo letto
che la priorità era diventare completamente padroni dei propri pensieri. E
questo era molto difficile per me: la concentrazione nel mio lavoro era qualcosa
di totalmente differente dallo stabilizzare la mente e imbrigliare l’intero
processo del pensiero. Secondo alcuni testi, bisognava tenere saldamente in mano
le redini del pensiero, poiché esso non sarebbe stato sufficientemente affinato
per penetrare nelle molte illusioni fino a che non fosse stato controllato e
diretto; perciò questo fu il mio primo impegno e obiettivo.»
Posso chiederti, senza
interrompere la tua narrazione, se il controllo del pensiero è davvero il primo
impegno?
«Ho sentito quello che
hai detto nelle tue conversazioni sulla concentrazione, ma se posso preferirei
descrivere il più possibile la mia intera esperienza e dopo cercare di
analizzare alcune questioni di vitale importanza connesse con la mia
esperienza.»
Come vuoi.
«Sin dall’inizio non
ero soddisfatto della mia occupazione, ed è stato dunque abbastanza facile
abbandonare una promettente carriera. Avevo letto tantissimi libri sulla
meditazione e la contemplazione, inclusi gli scritti di molti mistici, sia
orientali sia occidentali, e mi sembrava ovvio che il controllo del pensiero
fosse il traguardo più importante. Richiedeva però uno sforzo considerevole,
convinto e risoluto. Mentre progredivo nella meditazione ebbi molte esperienze:
visioni di Krishna, di Cristo, e di alcune delle divinità indù.
Diventai
chiaroveggente e incominciai a leggere nei pensieri della gente, e acquisii
certi altri siddhis o poteri yogici. Passai di esperienza in esperienza, da una
visione, con il suo significato simbolico, a un’altra, dalla disperazione
all’esperienza del più alto splendore. Conobbi l’orgoglio del conquistatore, di
colui che è padrone di se stesso. (‘‘ascetismo, la padronanza di sé donano un
senso di potere e alimentano vanità, forza e fiducia in se stessi: io ero nella
ricca pienezza di tutto ciò.
Anche se avevo sentito parlare di te da molti anni,
l’orgoglio dei miei traguardi raggiunti mi aveva sempre impedito di venire ad
ascoltarti; ma il mio amico, un altro sannyasi, insistette che dovevo
assolutamente farlo, e quello che ho sentito mi ha turbato. E pensare che
credevo di essere ormai oltre qualsiasi turbamento! In breve, questa è la storia
del mio percorso nella meditazione.
Tu hai detto nelle tue
conversazioni che la mente deve andare oltre tutta l’esperienza, altrimenti
resta imprigionata nelle sue stesse proiezioni, nei suoi desideri e nelle sue
ricerche, e fui profondamente sorpreso quando riconobbi che la mia mente era
intrappolata in queste stesse cose. Essendone consapevole, come può la mente
abbattere le mura di una prigionia che essa stessa si è costruita? Ho sprecato
questi miei ultimi vent’anni? Ho semplicemente vagato nell’illusione?»
Parleremo più tardi di
quale sia l’azione che dovrà essere fatta; ma consideriamo ora, se vuoi, il
controllo del pensiero. Il controllo è necessario? È benefico o dannoso? Molti
maestri religiosi hanno indicato come passaggio primario il controllo del
pensiero, ma hanno ragione? Chi è colui che controlla? Non è una parte dello
stesso pensiero che cerca di controllare? Può riferirsi a se stesso come a
un’entità separata, diversa, altra dal pensiero, ma non è invece il risultato
del pensiero? Sicuramente, il controllo implica l’azione coercitiva della
volontà per soggiogare, sopprimere, dominare, costruire una resistenza contro
quello che non è desiderato.
In questo intero
processo c’è un grandissimo, penoso conflitto, non sei d’accordo? E qualcosa di
buono può forse scaturire e provenire dal conflitto?
La concentrazione
nella meditazione è una forma di miglioramento egocentrico: enfatizza l’azione
all’interno dei confini del sé, dell’io, del «me». La concentrazione è un
processo di riduzione del pensiero: sei come un bambino tutto preso dal suo
giocattolo. Il giocattolo, l’immagine, il simbolo, la parola arrestano i
vagabondaggi senza posa della mente, e un tale assorbimento è chiamato
concentrazione.
La mente viene controllata dall’immagine, dall’oggetto,
esteriori o interiori. L’immagine o l’oggetto assumono allora un’importanza
fondamentale, e non più la comprensione della mente. La concentrazione su
qualcosa è relativamente facile: il giocattolo assorbe la mente, ma non la
libera, dandole la possibilità di esplorare, di scoprire cosa ci sia, ammesso
che ci sia qualcosa, oltre le sue stesse frontiere.
«Ciò che stai dicendo
è così diverso da quello che uno legge o che gli è stato insegnato, ma comunque
mi sembra vero e sto iniziando a comprendere le implicazioni del controllo. Ma
come può la mente raggiungere la libertà senza disciplina?»
La soppressione e la
conformità non sono passaggi che conducono alla libertà: il primo passo da fare
verso la libertà è la comprensione dei legami, del condizionamento.
La
disciplina imbriglia il comportamento e plasma il pensiero entro un desiderato
modello, ma senza la comprensione del desiderio, il semplice controllo e la
disciplina travisano il pensiero; laddove, quando esiste una consapevolezza
delle modalità del desiderio, questa porta invece ordine e chiarezza. Prima di
tutto, la concentrazione è la via del desiderio. Un uomo d’affari è concentrato
perché vuole ammassare ricchezza e potere, e quando un altro è concentrato nella
meditazione, anch’egli sta ricercando una realizzazione, una ricompensa:
entrambi stanno perseguendo il successo, che regala fiducia e stima in se stessi
e la sensazione di sentirsi al sicuro. E così, non pensi?
«Ti sto seguendo.»
La pura e semplice
comprensione verbale, che altro non è se non cogliere a livello intellettuale
ciò che è stato detto, ha ben poco valore, non sei d’accordo? Il fattore
liberatorio non è mai una pura e semplice comprensione verbale, ma la percezione
della verità o della falsità della questione.
Se noi riuscissimo a comprendere
le implicazioni della concentrazione e a vedere il falso come falso, allora ci
sarebbe la libertà dal desiderio di realizzare, sperimentare, diventare. Da
questo proviene l’attenzione, che è completamente diversa dalla concentrazione.
La concentrazione implica un duplice processo, una scelta, uno sforzo, giusto?
C’è l’autore dello sforzo e il fine verso cui lo sforzo è diretto; perciò la
concentrazione rafforza l’ io», il sé, l’ego in quanto autore dello sforzo: il
conquistatore, il virtuoso. Ma nell’attenzione questa attività dualistica non è
presente; c’è un’assenza dello sperimentatore, di colui che accumula,
immagazzina e reitera. In questo stato di attenzione il conflitto della
realizzazione, dell’ottenimento e la paura del fallimento sono cessati.
«Ma sfortunatamente
non tutti noi siamo benedetti da questo potere dell’attenzione.»
Non è un dono, non è
una ricompensa, una cosa che debba essere acquistata attraverso la disciplina,
la pratica e altro: arriva in essere con la comprensione del desiderio, che è la
conoscenza di sé. Questo stato di attenzione è il bene, l’assenza del sé.
«Ma allora tutti i
miei sforzi e la disciplina di questi anni non sono stati altro che una completa
perdita di tempo e non hanno alcun valore? E pur facendo questa domanda, sto
incominciando a rendermi conto della verità della questione. Vedo ora che per
oltre vent’anni ho perseguito una via che ha inevitabilmente condotto a una
prigione che mi sono creato da solo e in cui ho vissuto, sperimentato e
sofferto. Piangere sul passato significa indulgere nell’autocommiserazione, e
invece bisogna ricominciare con spirito rinnovato.
Ma cosa mi dici di tutte le
visioni e le esperienze che ho vissuto? Anch’esse erano false, senza alcun
valore?»
La mente non è una
sorta di enorme magazzino di tutte le esperienze, le visioni e i pensieri
dell’uomo? La mente è il risultato di molte migliaia di anni di tradizione ed
esperienza; è capace di invenzioni fantastiche, dalla più elementare alla più
complessa e sofisticata; è capace di straordinarie delusioni o di incredibili
percezioni e intuizioni.
Le esperienze e le speranze, le angosce, le gioie e la
conoscenza, collettive o individuali, accumulate nel corso del tempo, sono tutte
li, immagazzinate negli strati più profondi della coscienza, e ognuno di noi può
rivivere le esperienze e le visioni ereditate o acquisite. Dicono che certe
droghe possano portare chiarezza, una visione delle profondità e delle altezze,
che possano liberare la mente dai suoi turbamenti, donando una grande energia e
una lucida introspezione.
Ma la mente può viaggiare attraverso tutti questi
passaggi oscuri e nascosti per arrivare alla luce? E quando attraverso uno
qualsiasi di questi mezzi arriva veramente alla luce, si tratta della luce
dell’eterno? O è la luce del conosciuto, del riconoscimento, un’esperienza nata
dalla ricerca, dalla lotta, dalla speranza? Bisogna per forza passare attraverso
questo processo estenuante per trovare ciò che non è misurabile,
l’incommensurabile? Non potremmo invece evitare tutto questo e arrivare
direttamente a quello che si chiama amore? Dal momento che hai avuto visioni,
poteri, esperienze, che cosa mi dici?
«Mentre li vivevo,
naturalmente pensavo che fossero importanti e significativi; mi donavano un
senso soddisfacente di potere, e una certa felicità per le realizzazioni
gratificanti. Quando i poteri arrivano, danno una grande fiducia e sicurezza,
una sensazione di padronanza su di sé in cui è presente un intenso orgoglio.
Dopo che abbiamo parlato di tutto questo, non sono sicuro che le visioni e le
esperienze che ho vissuto abbiano più questo grande significato, anche se prima
mi sembrava lo avessero. Sembrano come scemare e allontanarsi nella luce della
mia nuova comprensione.»
Si deve passare
attraverso tutte queste esperienze? Sono necessarie per spalancare le porte
dell’eterno? Non possono essere evitate? Prima di tutto, ciò che è essenziale è
la conoscenza di sé, che porta a una mente immobile e silente. Una mente
immobile e silente non è il prodotto della volontà, della disciplina, delle
varie pratiche per soggiogare il desiderio; pratiche e discipline non fanno
altro che rafforzare il sé, e la virtù diventa allora un’altra roccia su cui il
sé può costruire una casa di importanza e rispettabilità.
La mente deve invece
essere vuota dal conosciuto affinché l’inconoscibile possa essere e rivelarsi.
Senza la comprensione delle vie del sé, la virtù incomincia a rivestirsi di
importanza; perciò, è necessario che il movimento del sé, con la sua volontà e
il suo desiderio, la sua ricerca e la sua accumulazione, debba interamente
cessare. Solo allora l’eterno, il senza tempo, potrà palesarsi e disvelarsi: non
può essere evocato. La mente che cerca di evocare il reale attraverso varie
pratiche, discipline, preghiere e atteggiamenti e comportamenti, può solo
ricevere le proprie proiezioni gratificanti, ma non saranno il reale.
«Ora percepisco, dopo
tutti questi anni di ascetismo, disciplina e automortificazione, che la mia
mente è tenuta prigioniera dalle sue stesse creazioni, e che le mura di questa
prigione vanno abbattute. Come si può fare?»
La semplice
consapevolezza che vadano abbattute è già abbastanza. Una qualsiasi azione per
abbatterle non farà altro che mettere in moto il desiderio di realizzare, di
ottenere, e quindi innescherà il conflitto degli opposti, lo sperimentatore e
l’esperienza, il ricercatore e la ricerca. Vedere il falso in quanto falso, in
se stesso è già abbastanza, poiché la vera percezione libera la mente dal falso.
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/ilcontrollo.htm
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