Film - Il grande silenzio
La forza del silenzio e la cosciente presa di distanza dal mondo in un film che procede come un dialogo muto tra uomo e natura
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Marzia Gandolfi
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In un tempo di cinema chiassosamente sonoro, che tutto
riempie e trabocca, diventa necessario sperimentare il silenzio. Quello
grande e silente "registrato" nel monastero certosino de La Grande
Chartreuse, situato sulle montagne vicine a Grenoble.
A salire sulle
Alpi francesi con la macchina da presa è stato il regista tedesco Philip
Gröning, che per diciannove anni ha cullato il desiderio di realizzare
un documentario sulla vita dei monaci e sul tempo: quello della
preghiera e quello del cinema.
Perché quel tempo potesse scorrere sulla
pellicola, il regista ha condiviso coi monaci quattro mesi della sua
vita: partecipando alle meditazioni, alle messe, alle lodi, ai vespri,
alla compieta (l'ultima delle ore canoniche), ritirandosi in una cella
in attesa di ripetere nuovamente l'ufficio delle letture.
Il suo film, apparentemente immobile e privo di uno sviluppo narrativo, trova invece un suo modo straordinario di procedere inserendo un dialogo muto tra l'uomo e la natura, scandito fuori dal monastero dalle stagioni e dentro le mura, vecchie di quattro secoli, dalla rigorosa liturgia dei monaci.
Separati materialmente dal mondo mantengono con
esso una solidarietà espressa attraverso un'incessante preghiera. La
vita eremitica e contemplativa viene filmata e riproposta allo
spettatore nelle sue ricorrenze quotidiane, inalterabili e puntuali,
interrotte soltanto da un imprevisto "drammaturgico": l'arrivo di un
novizio al convento.
L'equilibrio della comunità monastica è ricomposto
poco dopo con l'ammissione del giovane uomo nell'ordine, attraverso
suggestive cerimonie di iniziazione in lingua latina. La partecipazione
dello spettatore alla vita del monastero è affidata unicamente alle
immagini, che non si aggrappano quasi mai a un suono, a una voce
esplicativa fuori campo, a una musica applicata alla pellicola, a una
parola, se non a quella di Dio. I salmi e le preghiere, sgranate come un
rosario e costantemente ripetute, sono l'unico linguaggio concesso, lo
strumento verbale alto per pensare il divino, per comunicare con Lui.
Il regista "officia" la sua funzione lasciando libero lo spettatore e la sua percezione di cogliere nel montaggio i commenti impliciti, nel silenzio i suoni compresi. Perché il suo documentario diventi un'autentica esperienza ascetica, Gröning lo costruisce come fosse un mantra, mettendo la grammatica del cinema al servizio del linguaggio dello spirito. Se la comprensione dell'Assoluto passa attraverso la reiterazione della preghiera, il cinema che la fissa dovrà a sua volta replicare il suo linguaggio, quello della ripresa.
E allora si ribadisce
quell'inquadratura, quel primissimo piano, quel campo medio o
lunghissimo, si insiste sulle identiche didascalie di raccordo perché il
pubblico stabilizzi la mente e lo sguardo su un'idea. La lunghezza
della pellicola, che ha impaurito i più o peggio li ha spazientiti, è al
contrario funzionale all'esperienza contemplativa che il regista ha
voluto raccontare. La sua visione disciplina la mente inducendola, e non
poteva essere altrimenti, a chiarire e a purificare il pensiero. Per
una volta non può far male.
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