mercoledì 2 aprile 2014

  Libro   - Viaggio fra i misteri di 

Leonardo Da Vinci

di Michele Lombardi 

L’autore di questo libro, ottimo sia per la sua forma originale con cui presenta una serie di informazioni anche dell'attualità circa Leonardo da Vinci sia per la sua suggestiva e originale analisi della doppiezza e ambiguità di questi,  è Michele Lombardi, già direttore dei musei delle macchine di Leonardo da Vinci di Firenze e Sangimignano.  La segnalazione si rende opportuna non tanto per il valore del libro ma perché il suo autore sta per presentare al grande pubblico scoperte veramente incredibili su Leonardo  (e non solo) che determineranno una profonda revisione delle conoscenze correnti e  molti cambiamenti  sia nel campo culturale che scientifico.
Si consiglia vivamente di rimanere “sintonizzati”. Tempi-Finali



Quella notte dormii nel letto  di Leonardo da Vinci! 


Visita a François Saint Bris nel castello di Clos-Lucé


di Michele Lombardi

Un episodio che ricordo sempre con grandissimo piacere è quello relativo al mio incontro con François Saint Bris nel castello di Clos-Lucé,  ultima dimora di Leonardo  da Vinci che lì visse, ospite del re di Francia Francesco I, dal 1516 fino alla sua morte nel 1519.

La famiglia Saint Bris è proprietaria del castello (e del  parco circostante) avendolo acquistato oltre 200 anni fa direttamente dal re di Francia.

Questo mi fu detto personalmente da François Saint Bris durante la mia permanenza al castello, durata due giorni, come suo ospite. L’incontro non fu casuale.

A quel tempo, cioè circa 6 o 7 anni fa, vivevo a Firenze in quanto direttore dei musei di Firenze e di Sangimignano da me fondati insieme ad altre due persone.

Era naturale, per quel ruolo e per quel contesto, incontrare personalità di particolare rilievo. In quel caso specifico l’iniziativa fu mia. Telefonai dal museo di Firenze.......


Solo il tempo dello scambio di qualche frase di presentazione e François Saint Bris, rompendo gli indugi, mi invitò a prendere un aereo e a raggiungerlo. 

Pochi minuti dopo la telefonata ne seguì un’altra con la quale gli comunicavo che sarei arrivato in aereo due giorni dopo.


Ricordo che Saint Bris apprezzò molto la mia concretezza come io avevo apprezzato il suo signorile e generoso invito. Arrivai a Parigi in compagnia di uno dei miei soci.

All’aeroporto prendemmo a noleggio una macchina con la quale raggiungemmo dopo circa tre ore Amboise.  Ricordo perfettamente l’accoglienza.

Appena gli fu comunicata la mia presenza, insieme a quella del mio socio, arrivò all’istante accompagnato da tre o quattro suoi collaboratori. Una persona squisitamente sobria e gentile dotata di un gesto di una naturalezza veramente ammirevole.

Questa fu la mia impressione del primo momento, un’impressione confermata in ogni istante di quegli indimenticabili due giorni.  Dopo i sorrisi e le strette di mano ci incamminammo in direzione del parco. Sembrava che non avessimo uno scopo e una meta. Avevo l’impressione che passeggiare fosse tutto ciò che dovessimo fare.

Ma questo non mi dispiaceva affatto; anzi, mi dava la strana sensazione di essere… come posso dire: “nel posto giusto”. Veramente una sensazione molto particolare. Conversavamo tranquillamente con l’aiuto di una bravissima interprete che sapeva riferire ogni sfumatura, ogni intonazione delle nostre frasi. 

Quasi per caso, ad un certo punto incontrammo nel parco una lunga tavola imbandita. Ci vennero incontro a salutarci piacevolissime persone, uomini e donne, vestite con abiti rinascimentali assolutamente perfetti. Un’organizzazione così perfetta e così apparentemente casuale non l‘avrei mai immaginata possibile.

Sedemmo alla tavola.  Fu come varcare una soglia temporale. Cominciai a parlare di Leonardo con i toni di una piacevole e abituale conversazione. Dicevo di quello che aveva fatto in quel luogo, di come si muoveva, di quello che pensava.

Di tanto in tanto correggevo qualche convinzione errata di François Saint Bris che sembrava sinceramente e piacevolmente stupirsi delle cose che aggiungevo alle sue conoscenze. Tutto questo mentre arrivavano in continuazione pietanze rigorosamente rinascimentali con certi sapori che sembravano appartenermi da sempre. Una magia, una rappresentazione vivente di una favola fatta di una realtà sovrapposta ad un’altra, un momento intersecante un altro.

Dopo il pranzo riprendemmo  la passeggiata nel parco.  Ogni tanto si incontrava una piazzola circondata da verde. Ciascuna era  attrezzata con sedili che suggerivano efficacemente l’idea di una breve sosta.

E subito l’incanto di una voce suadente, quella di Leonardo che da qualche parte veniva non necessariamente per insegnarti, neanche per essere memoria letteraria ma semplicemente per trasportarti altrove rendendo diverso e più ricco il semplice riposo di un minuto.

Dopo aver incontrato qui e là ponticelli e grandi macchine di Leonardo in un grande spazio avvolto da una inviolabile atmosfera da sogno, resa ancor più compiuta dal delicato fruscio di grandi stampe fra gli alberi, raggiungemmo, apparentemente senza volerlo,  un padiglione di cui non era ancora finito il restauro. François Saint Bris mi disse che quel luogo era destinato a progetti riguardanti Leonardo non ancora ben definiti e che, pertanto, volentieri mi avrebbe riservato tutto il piano superiore se per caso ne avessi avuto uno già pronto, o se ne avessi elaborato uno riguardante Leonardo come architetto e anatomista. Tutto scorreva in modo semplice e diretto.

Nonostante gli infiniti impegni e responsabilità legati alla conduzione di quel luogo François non mi lasciò mai neanche per un minuto. E così fu fino alla mia partenza che non avvenne senza una vena di nostalgia.  La visita continuò  senza fretta. Somigliava sempre di più a qualcos’altro. 

L’ incontro come occasione per possibili “affari” sembrava non essere mai decollato. Fin da subito, e man mano sempre di più, sembrava piuttosto una sorta di “rivisitazione di luoghi per il risveglio  di un’antica memoria”. Giungemmo al castello. Fu una buona occasione per portare, sia io che il mio socio, i bagagli nelle stanze che ci erano state assegnate e che si trovavano al primo piano, non lontano dalla leggendaria stanza da letto di Leonardo.

Il primo giorno si concluse  con una cena “sobriamente regale” allestita con un piccolo tavolo sistemato all’aperto, in uno spazio prossimo al castello, circondato da candelabri con molti bracci messi anche sul muretto e per terra.

Su di esso erano sistemate con casuale abbondanza ancora pietanze esclusivamente rinascimentali, presentate dentro piatti e vassoi che rievocavano facilmente la normalità dei fasti di un’altra epoca mai veramente scomparsa. Io, in quel buio luccicante, non vedevo altro che i segni dell’unicità ed irripetibilità di certi momenti della vita, specialmente di una vita come la mia.

Il giorno dopo, François mi mostrò ogni angolo del castello, le sale delle grandi macchine di Leonardo, il book shop, gli altri ristoranti presenti nel parco  che non avevo ancora visto (ne erano quattro). 

Aperitivi, ancora un pranzo, ancora la cena. Una cena molto intensa, sia perché l’ultima sia perché ricca di tante osservazioni interessanti e profonde. Forse, fu quello il momento saliente del nostro incontro, dove tutti i convocati erano presenti: noi due, altre persone (l’interprete e il socio) anch’esse intensamente partecipanti, la stupenda serata, le nostre storie personali, quel mondo intimo di ciascuno riservato  per le grandi occasioni, ironie intelligenti, progetti, promesse, visioni. 

E proprio di una mia visione gli parlai a lungo. Gli dissi che tutto quello che stavamo vivendo, nei minimi dettagli, lo avevo già visto come qualcosa che mi  sarebbe prima o poi realmente accaduto.  Era la verità, e né sarebbe potuto essere diversamente in quanto la verità è l’unica cosa che mi diverte sul serio.  Aggiunsi che una parte della visione, però, era sicuramente sbagliata perché mai si sarebbe potuta realizzare.

La parte sbagliata era che avrei dormito nel letto di Leonardo. Gli dissi che mi rendevo conto dell’assurdità della cosa e che mi dispiaceva, non certo per una cosa che non si sarebbe mai potuta realizzare, ma  per il fatto che rendeva gravemente imperfetta la mia bella visione per gran parte cosi  autenticamente profetica. La serata continuò piacevole fino al momento del congedo. Tutto perfetto. 

Salutai, e François rispose al saluto aggiungendo:”dove dormirai stanotte?” Ed io:”Nella stanza di Leonardo, naturalmente?”. – “Allora, dò disposizioni per il trasferimento della tua roba in quella stanza”.  Stava dicendo sul serio. Non ci potevo credere, stava veramente dicendo sul serio. Aggiunse, mostrando di tenere molto alla precisazione, che nessuno l’aveva ancora mai fatto.

A nessuno gli era stato mai concesso.  Neanche a lui. Il padre, infatti, gli aveva respinto  lo stesso desiderio,  ammonendolo, per giunta, severamente per la richiesta superficiale e irriguardosa.  Non sapevo proprio cosa dire. Non mi veniva in mente niente che potessi  fare per lui e che fosse all’altezza di ciò che mi stava offrendo.

Ma poi qualcosa mi venne in mente. Avevo già annunciato alla stampa il mio tentativo di volo con una macchina di Leonardo fatta di legno e stoffa, un tentativo senza trucchi (contrariamente al solito). Gliene parlai velocemente e gli dissi che gliel’avrei dedicato pubblicamente, un attimo prima dell’impresa. François ne fu felice e aggiunse che sarebbe stato presente al tentativo ovunque l’avessi effettuato. Tutto molto bello tranne per il fatto che non ho saputo mantenere quell’impegno. Speravo, anzi, ero certo di trovare facilmente uno sponsor ma non è stato così.

Per un’impresa del genere ci vogliono soldi che non avevo. Inoltre certe mie scelte di vita mi hanno allontanato da quelle sfide per me abituali  tenendomi molto impegnato su altre. Devo delle scuse a François. Sono convinto però di essere ora nelle condizioni di potergli offrire qualcosa di equivalente a quel gesto, un gesto non solo apprezzato ma anche molto amato.
 
Quella notte dormii nella stanza di Leonardo da Vinci. La stanza è un museo ed è custodita da molti allarmi  che il buon François da solo non avrebbe mai saputo disattivare. Durante la cena, senza che io me ne potessi accorgere aveva dato disposizione ad un suo fedele dipendente per la loro disattivazione. Ma anche per il dipendente, solo un po’ più esperto di lui, la cosa non sarebbe stata né semplice né scontata.

Ma tutto alla fine era andato per il meglio. François Saint Bris ha potuto avere il piacere di  farmi un regalo che sapeva molto gradito ed io vivere qualcosa che non saprei o che forse, in fondo, non ho nessuna vera intenzione di definire. 

Credevo che non mi sarei addormentato e, invece, ho dormito un unico sonno fino al mattino. Appena sveglio la mia prima e unica occupazione fu quella di passare e ripassare in rassegna infinite volte ogni oggetto presente nella stanza. Fotografare nella mente ogni loro misura, forma, materiale. E così anche per le finestre, le  porte, il soffitto ecc.  Ancora pochi minuti e avrei dovuto lasciare per sempre quella stanza che era stata anche mia per una notte. Avevo il terrore che tutto svanisse come svanisce qualsiasi cosa comune.

Questo non doveva accadere, non me lo sarei mai perdonato. Mentre immerso nella luce di penombra ero applicato alle operazioni di registrazione mentale di tutto ciò che cadeva dentro il mio campo visivo, improvvisamente irruppe nella stanza una donna evidentemente addetta alle pulizie del museo con un potente aspirapolvere già in funzione. La cosa in sé sembra una banalità, qualcosa di scarsamente rilevante, ma non é esattamente così.

Quella donna stava avvicinandosi sempre di più al mio letto, o meglio al letto di Leonardo e non osavo immaginare che cosa sarebbe successo nel momento in cui mi avesse visto disteso lì dentro. Anche se avessi anticipato il suo arrivo alla sponda del letto facendo notare la mia presenza dicendo qualcosa, niente garantiva che non sarebbe stramazzata a terra per la paura. 

Ero molto indeciso sul da farsi. Nel frattempo cercavo di valutare la capacità di resistenza della donna ad un forte spavento prendendo in esame  la sua età, il suo probabile grado di salute; mentre dai suoi movimenti con l’aspirapolvere cercavo di intuire  il carattere, il temperamento, ecc.,  tutti dati che mi sarebbero tornati utili per la mia decisione.

Era una donna di una certa età ma mi sembrò robusta, anche mentalmente. Così decisi di dire qualcosa. Ma cosa? Non avrei potuto certo dire :”Ehi, salve!”. Ci voleva qualcos’altro ma non solo, perchè una cosa era certa: qualunque cosa avessi deciso di dire dovevo dirla in fretta e in francese. Erano ormai veramente tanti gli anni da quando avevo detto l’ultima frase in francese ma alla fine riuscii a confezionarne una a cui affidare le sorti di quella situazione. La  ripetei molte volte mentalmente prima di pronunciarla.

Quando, poi,  mi sentii pronto chiusi gli occhi e lo feci:” Je suis,  un ami de François Saint Bris.  Je m’appelle Michele”. Non so come ci riuscii a dirla in fretta senza sbagliare, ma ci riuscii. Una volta lanciata la frase non mi rimase che aspettare l’effetto. La donna si paralizzò di colpo. Furono attimi interminabili.

Poi si voltò senza dire una parola e se ne andò tirandosi dietro l’aspirapolvere come se cercasse in quel momento più che mai la sua compagnia. Tirai veramente un profondo sospiro di sollievo. E una volta che il peggio era passato non vedevo l’ora di raccontarlo, specialmente  a François Saint Bris. Ridemmo di quello e ci commuovemmo per altro. Poi, le promesse, i saluti. 

Forse non è esagerato dire che ci lasciammo anche con un po’ di affetto, almeno da parte mia fu così.           


 Il Carrarmato ed Io
di Michele Lombardi


Il carrarmato ed io, come dire quella strana coppia.

Ad ognuno nella propria vita capita l’incontro fatale: una persona, un cane, una situazione. A me è toccato un carrarmato. Ma non mi lamento, poteva andarmi peggio. In fondo non è un carrarmato qualunque, si tratta del carrarmato disegnato da Leonardo Da Vinci.

La prima volta che lo vidi avevo 9 o 10 anni. Era in un libro che riguardava appunto Leonardo nel quale l’autore cercava di dare l’idea della portata del genio mettendo insieme un po’ di tutto, dagli aforismi alle favole, dalla geometria alla pittura, e quindi le invenzioni.

Per una famiglia di artisti come la mia quel libro era un serio indizio di quale fosse per ciascun membro il vero livello a cui aspirava. Come membro incontestato di quella famiglia anch’io lanciai il mio segnale forte e chiaro. Presi quel libro e gli dedicai molto tempo. Cercai, perfino, di capire il più possibile quella strana lingua con cui Leonardo si esprimeva pur di entrare in contatto profondo con lui.


Leonardo esercitava su di me un’attrazione indefinibile che già allora non riuscivo a spiegarmi solo con l’influenza dell’aria di casa. Le pagine del libro che più mi appassionavano, naturalmente, erano quelle della sezione “invenzioni”. 

Ricordo che dedicai un tempo indefinito all’osservazione delle macchine volanti, un’altra “terribile” passione che sarà vissuta concretamente come una febbre, nella quale il pericolo era cercato e usato né più né meno di una qualsiasi leva di comando del mezzo aereo.

Era sufficiente leggere che Leonardo aveva inventato l’elicottero o che il suo aliante era stato realmente pilotato da lui stesso o dal suo operaio Tommaso Masini per entrare letteralmente in un’altra dimensione. Chiamiamola pure Fantasilandia o Mondo dell’Immaginazione, va bene lo stesso. Finite le macchine volanti riprese il normale scorrere del tempo.

Quindi, so che trascorsero altri 10 minuti prima di incontrare lui: il carrarmato. Come spesso mi è capitato di notare nel corso della mia vita, proprio le cose o le persone che mi apparterranno di più sono stranamente vissute nel primo incontro con “conflittualità”.

La mia ostilità si manifestò con una parola che pronunciai ad alta voce: “teiera”. Era ridicolo e irritante.  Somigliava veramente ad una teiera fumante. Ma nonostante ciò, o a causa di ciò (non sarà mai chiaro fino in fondo), provavo ugualmente attrazione. Nonostante il tempo trascorso, sono abbastanza certo del fatto che anche allora come ora il motivo dell’attrazione ad oltranza era la convinzione che non poteva essere così come sembrava, ci doveva essere certamente un’altra spiegazione.

Non molto tempo dopo si rese evidente in una forma compiuta la mia naturale vocazione alla totale ed insindacabile indipendenza.  Molte cose accaddero nei molti anni che seguirono ma non quella di rivedere il carrarmato di Leonardo. Ma quando poi trascorse il tempo esatto che fu di molti anni più uno allora lo rividi. Accadde in un museo. Era molto cambiato. Lo avevo lasciato teiera e lo ritrovavo tenda indiana o qualcosa del genere.

Avevo davanti a me un piccolo modello in legno e ferro, quest’ultimo materiale nella quantità di qualche chiodino. Mi sentii molto disorientato, e cercai immediatamente il disegno di Leonardo perché mi rassicurasse. Lo trovai un paio di metri più in là ben stampato in mezzo ad una scheda esplicativa. La mia piccola teiera. Come era stato possibile un simile cambiamento? Quel modello era così diverso, anzi, estraneo al disegno di Leonardo.

L’indignazione fu enorme. Mi sentii letteralmente preso in giro. Fu allora che decisi di prendermi cura di quel carrarmato, e insieme a lui, di tutte le altre cose di Leonardo da Vinci. Avevo già una buona base di conoscenze che mi avrebbe facilitato il compito. Ma non so perchè, quando decido di prendermi cura di qualcuno o qualcosa a cui tengo succede l’esatto contrario.

Studiai  bene molte delle macchine di Leonardo ma non altrettanto bene il carrarmato. 

Ma nonostante ciò, per ogni macchina da me elaborata e diversamente  interpretata, compreso quindi il carrarmato,  volli realizzare costosissimi progetti esecutivi chiedendo assistenza professionale ad un ingegnere docente dell’Università di Napoli. Pretendevo da me stesso molta serietà, e un giorno, quando avrei avuto i soldi per farlo, avrei realizzato macchine per una mia mostra con un tasso di scientificità certamente superiore a quello riscontrato fino a quel momento.

Ma la parte dolorosa è che al carrarmato, proprio al carrarmato non dedicai tempo. Mi lasciai prendere dalla foga di chiudere il lavoro di realizzazione dei progetti esecutivi. Giocai sporco con me stesso. Mi preoccupai soltanto di farlo grande e robusto, il più grande e il più robusto del mondo. E così, rimase una teiera, una gigantesca teiera, un enorme monumento alla stupidità.

Alcuni anni dopo ebbi l’occasione di realizzare le macchine, quelle macchine, grazie all’incontro con persone che avevano gli strumenti adeguati per fabbricarle. E così ebbi modo di vedere in tutta la sua consistente e smisurata vacuità  l’ “Oggetto”.

Fu collocato nel museo di Firenze e fu al centro di una serata memorabile da me organizzata, dedicata alla sua presentazione  e a quella più in generale della mostra permanente, attiva soltanto da qualche giorno.  Alla serata-evento  parteciparono il Presidente del Consiglio Regionale della Toscana Nencini, il Vicepresidente Mondiale dell’Unesco, il massimo esperto al mondo di Leonardo da Vinci Carlo Pedretti, il direttore del “ Museo Ideale” di Vinci Alessandro Vezzosi,  il Direttore dell’ApT di Firenze , Il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico della Toscana, Assessori Regionali e Comunali,  Presidenti delle più svariate organizzazioni, giornalisti delle maggiori testate ecc.  Una conferenza da me condotta fu il centro dell’incontro.

Un evento irripetibile, testimoniato da riprese filmate e da articoli sui giornali del giorno dopo. In mezzo a tutto questo troneggiava l’immensa quanto ingiustificabile teiera. Esattamente un anno dopo decisi che quell’esperienza mi aveva tenuto fermo fin troppo rispetto alle cose che sentivo necessarie. Mi misi, così,  nuovamente in cammino.  Ripresi i miei studi, la mia personale ricerca della realtà dei fatti e dei significati reconditi dei disegni di Leonardo e della sua stessa vita. Sapevo che quei significati ulteriori esistevano, e che erano nascosti sotto gli occhi.

Dovevo trovare il modo di decodificare. Un giorno, uno come gli altri, dopo aver dato istruzioni ai miei operai per la costruzione di nuove macchine, sentii che era arrivato il momento. Era arrivato il momento di capire che cos’era il carrarmato di Leonardo, sicuro del fatto che ci sarei riuscito e che la scoperta sarebbe stata la chiave per interpretare tutto il resto. Ecco uno di quei momenti che non è facile né spiegare né capire e, ancora meno, accettare. Non avevo fatto nessun ragionamento, nessuna programmazione né del gesto né del modo e neppure del momento.

Mi sedetti per terra, al sole, e cominciai determinato a non smettere fino a quando non avessi trovato ciò che per il resto del mondo semplicemente non esisteva. Avevo una lente d’ingrandimento del costo di 2 euro e  una piccola foto del catalogo di una mostra che ritraeva il carro sia coperto che scoperto, foto di due o tre centimetri.  Due ore dopo avevo già scoperto quasi la metà delle cose nascoste in quelle due piccole immagini.  Un mese dopo avevo costruito un esemplare del carrarmato di grandi dimensioni:  m  6.20x3.50 (ancora una volta il più grande del mondo).

Due mesi dopo quella stessa macchina era immortalata in un CD molto professionale della durata di 14 minuti e tradotto in cinque lingue. Da allora sono trascorsi 4 anni senza che né  il carrarmato né il CD venissero presentati al mondo. Un fatto apparentemente  inspiegabile. Posso dire soltanto che sentivo che non era ancora arrivato il momento.

Che abbia sentito bene lo dimostra il fatto che negli ultimi quattro anni ho scoperto un’infinità di altri elementi nascosti ancora in quel carrarmato, e che quelle scoperte mi hanno dato la possibilità di comprendere il significato e scoprire i contenuti di decine e decine di altri grandi misteri sparsi in tutto il mondo. 

Ora, e solo ora, posso dire con assoluta certezza che il momento è finalmente arrivato. 

Sembra assurdo, ma il carrarmato di Leonardo  ha materialmente controllato e determinato l’andamento  di molti anni della mia vita, decidendo autonomamente quando trattenerla e quando rilanciarla.

Tutto molto bello ma non vorrei che prima o poi mi succedesse di aver bisogno di uno psicanalista a cui dover dire di essere convinto di aver sposato un carrarmato. 



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