mercoledì 27 febbraio 2013

- Democrazia, ovvero tutti contro tutti
- La scienza della persuasione
- Il paradosso del potere
- Psicologia delle folle




di Carlo Brevi


Ogni volta che arriva il momento delle “elezioni”, risulta sempre più evidente un fatto: la “democrazia” è lo strumento migliore di cui un gruppo di potere può disporre per tenere a bada la “massa”.
Il problema di chi detiene il potere, dall’inizio dei tempi, è infatti trovare il modo per tenere soggiogata la gran quantità di sudditi, numericamente di molto superiore rispetto all’elite che governa.

La soluzione più raffinata al quesito l’ha offerta proprio la democrazia: basta fare in modo che la massa si divida e si affronti tra sè.
Occorreva creare “fazioni” – destra sinistra, sopra sotto, progressisti conservatori, riformisti liberali liberisti – e lasciare che la massa si tenesse occupata per conto suo.
Meglio il partito giallo o quello verde?
E’ più credibile l’onorevole Strarubo o il presidente Bevilsangue?


E se non scelgo nessuno?
Votare o non votare: ulteriori divisioni.
I dibattiti dilagano, le discussioni imperversano, le parole scorrono e scorrono, e gli animi si scaldano.
Energie buttate al vento, cattivo sangue, cattivo umore, rabbia e frustazione, gli uni contro gli altri.
D’altra parte, se ci si trova di fronte ad un branco di cani randagi inferociti pronti a saltarci addosso, la soluzione per sfuggire al pericolo è gettare tra di essi due o tre bistecche e lasciare che si sbranino tra di loro.
Quando c’erano i re, quando c’erano i nobili, e dopo i dittatori, si aveva una situazione in cui un gruppo di potere aveva di fronte una massa di sfruttati compatta, uniti nella consapevolezza che il nemico fosse colui che sta in alto e sfrutta “la plebe”.
Una situazione potenzialmente pericolosa, in cui solo un utilizzo smodato della forza poteva servire per evitare il peggio.
Con la democrazia invece il problema è stato risolto egregiamente: bistecche lanciate tra la folla, e il gioco è fatto.



La scienza della persuasione
Il condizionamento nel Mondo Nuovo e l’esperimento di Pavlov.

Nel romanzo Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, ambientato in un ipotetico futuro, viene descritta una società distopica perfettamente pianificata, una società in cui la stabilità è raggiunta per mezzo dell’ingegneria genetica, del precoce condizionamento attuato sugli individui sin dalla più tenera età e mediante l’annullamento delle libertà personali.
In tale società, rigidamente divisa in caste, vi è quindi necessità di una forza lavoro che svolga mansioni con differenti gradi di specializzazione; di conseguenza, per fare in modo che nessuno sia scontento della propria posizione, ad ogni individuo viene riservata sin dalla più tenera età una diversa formazione.
Nei casi delle caste inferiori, i gamma e i delta, questa formazione sarà anche finalizzata nel mantenere basso il quoziente intellettivo dei soggetti, dal momento che coloro che sono preposti allo svolgimento dei lavori più umili è bene che non si rendano conto della loro situazione, e non sviluppino alcun sentimento di invidia nei confronti delle classi privilegiate.
Nel romanzo, tra le altre cose, vengono descritti alcuni dei metodi con cui i bambini delta vengono condizionati affinché sviluppino determinate inclinazioni e delle particolari predilezioni.
Ad esempio, nei primi mesi di età, vengono posti di fronte a dei libri e a dei fiori, ed ogni volta che li toccano vengono investi da una scossa elettrica.
Il regime infatti ritiene  sconveniente che i bambini sviluppino interesse per la lettura, dal momento che l’ignoranza è essenziale per mantenere la popolazione sotto controllo; allo stesso modo viene osteggiato un eccessivo amore verso la natura, poiché i cittadini che amano trascorrere il loro tempo all’aria aperta non spendono e non stimolano l’economia.
Huxley, nell’immaginare il condizionamento violento per mezzo delle scosse elettriche, si rifà evidentemente ai celebri studi del dottor Ivan Pavlov.

Ivan Pavlov, come è noto, mentre svolgeva degli esperimenti con l’aiuto di un cane aveva osservato come la salivazione dell’animale aumentasse alla vista del cibo, come normalmente ci si poteva aspettare.
Il cibo in questo caso venne chiamato stimolo incondizionato, e la salivazione del cane riflesso incondizionato.
Nel proseguire con l’esperimento, Pavlov iniziò a suonare un campanellino ogni volta che portava del cibo al suo cane, finché l’animale associò la presenza del cibo con il suono.
In seguito, Pavlov scoprì che il suono del campanellino, da solo, era sufficiente per innestare la salivazione del cane, anche senza la presenza del cibo.
Il suono del campanello divenne lo stimolo condizionato, mentre la salivazione indotta da questo suono, e non dal cibo, venne detta riflesso condizionato.

E’ utile qui notare che la salivazione non è una operazione controllata dalla parte razionale della mente, ma si tratta invece di un processo inconscio che si verifica a prescindere dalla volontà dell’individuo, negli animali così come nell’uomo.
L’esperimento di Pavlov, di conseguenza, registrò in maniera “scientifica” una delle caratteristiche principali del mondo animale, uomo incluso, ovvero la capacità della componente inconscia di elaborare i dati del mondo esterno per “associazione”.

Il meccanismo dell’associazioneTutti gli esseri umani sperimentano inconsciamente il meccanismo dell’associazione nella loro vita quotidiana.
Quando ad esempio associamo un profumo particolare ad una persona a noi cara, ed in seguito il solo odorare quel profumo ci provoca sentimenti positivi.
Oppure nell’istintiva repulsione che proviamo nei confronti della sveglia che interrompe il nostro sonno ogni mattino, anche quando è silenziosa, così come nella gioia provata nell’osservare un particolare oggetto, insignificante per gli altri, che abbiamo associato con un momento carico di sensazioni.
E’ importante sottolineare che il processo dell’associazione avviene in maniera del tutto inconscia, ed agisce ad un livello molto più profondo dell’attenzione razionale.
Occorre ricordare anche che l’apparenza, ovvero il modo in cui la realtà si mostra, gioca un ruolo molto più importante di quanto siamo portati a credere per quanto riguarda la nostra capacità di analizzare il mondo circostante,
Quando ad esempio incontriamo una persona, prima di parlarle e conoscerla la nostra parte inconscia ha già elaborato una sua precisa opinione, sempre attraverso il meccanismo della associazione, e la nostra parte razionale ed analitica interviene solamente in un secondo momento; se la prima impressione è negativa, dovrà passare molto tempo prima che il “parere” espresso dalla parte razionale possa mutarla, mentre se il primo giudizio è positivo, per lungo tempo i segnali negativi verranno accantonati e sminuiti dalla parte razionale.
Questa sorte di giudizio non ha nulla a che fare con l’intelligenza di una persona o la sua “apertura mentale”, tipica di chi è convinto di non giudicare mai dall’apparenza, proprio perché riguarda la nostra parte inconscia ed istintiva.

Un esempio aiuterà a comprendere meglio questi meccanismi: una conoscente, persona istruita ed amabile, trovava insopportabile la vista di un certo telecronista sportivo, giudicandolo persona estremamente antipatica ed irritante, senza che il comportamento del giornalista avesse mai dato adito a questo giudizio.
Un giorno, rivedendo le immagini di una tragedia successa molti anni addietro in una partita di calcio, la conoscente riconobbe la voce del telecronista, e si rese conto che la sua avversione nei suoi confronti era provocata dal fatto che aveva associato la sua voce alle tragiche immagini che da bambina aveva osservato alla televisione.Rifacendoci alla terminologia utilizzata da Ivan Pavlov, possiamo affermare che in questo caso la tragedia è lo stimolo incondizionato (quello che per il cane era la visione del cibo), la voce del telecronista è lo stimolo condizionato (il suono del campanellino), e il sentimento di repulsione all’udire il giornalista è il riflesso condizionato.
Ovviamente, questo processo psicologico non rappresenta una scoperta di Pavlov, ma a lui va il merito di averlo dimostrato “scientificamente”, ovvero secondo i parametri della ricerca moderna.

L’apporto della psicanalisi, da Freud a Le Bon
Pochi anni prima di Pavlov, un’altra disciplina propriamente moderna, ovvero la psicanalisi, sulla cui qualità scientifica è lecito dubitare, tentò di studiare le modalità attraverso le quali funzionava la psiche degli esseri umani, ponendo l’attenzione su quella sua componente che da allora venne chiamata “inconscio”.
L’idea di fondo di tale disciplina sosteneva che la maggior parte dei problemi psicologici delle persone era originata da traumi irrisolti, vissuti dall’individuo e rimossi dalla componente cosciente della psiche, ma ancora presenti a livello inconscio.
Si pensava che aiutando il paziente nel ricordare e “far riemergere” il trauma si potesse dargli la possibilità di affrontarlo e risolverlo definitivamente.
L’opera di Sigmund Freud e del suo allievo dissidente Jung ebbe un enorme diffusione nel XX secolo, ed influenzò in maniera decisiva il pensiero e l’immaginario collettivo.

La psicanalisi gode tuttora di enorme popolarità, e gode anche dello status di “disciplina scientifica”, nonostante molti si dichiarino scettici riguardo la sua reale efficacia.
Ma se l’aspetto curativo di questa scienza suscitò sin dalla sua nascita enormi perplessità, ad una parte dell’apparato teorico della psicanalisi venne invece riservata una grande attenzione da persone che occupavano posizioni di grandi responsabilità, persone che avevano interesse nel comprendere come effettivamente la psiche e la mente umana funzionano.
Fu questo il caso di Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, uno dei pensatori che maggiormente contribuì a plasmare la mentalità dell’uomo contemporaneo.

Bernays, rifacendosi all’opera di Freud e di Gustave Le Bon, un altro studioso che diede un enorme apporto alla comprensione di questi meccanismi, operò affinché tali studi potessero trovare una applicazione pratica su vasta scala.
Occorre quindi, prima di procedere con l’analisi dell’opera di Bernays, ricordare la grande importanza, ancora troppo poco nota, che ebbero le ricerche dello psicologo Gustave le Bon, che nel 1895 diede alle stampe il fondamentale Psicologia delle folle.
In tale scritto, Le Bon analizzava il comportamento sviluppato dalle persone nel momento in cui formano dei gruppi più o meno numerosi, arrivando a sostenere che all’interno di una folla emerge e prende il soppravvento una sorta di “coscienza collettiva” indipendente da quella dei singoli che la compongono, una coscienza che risponde a dettami “inconsci”, sentimenti che possono essere abilmente guidati da personalità carismatiche che sono in grado di comunicare direttamente con questa enorme “coscienza”.
L’opera di Le Bon venne attentamente studiata dai maggiori dittatori del XX secolo: Mussolini riteneva “psicologia delle folle” un testo imprescindibile per un leader di governo, così come Hitler e Stalin.
Edward Bernays, quindi, dopo aver a studiato i testi di Freud e di Le Bon, sul finire dell’ottocento si trasferì in America e si dedicò al perfezionamento della scienza della persuasione nota come propaganda.


Edward Bernays, dal razionale all’inconscio

Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla. Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare. Questo è il logico risultato del modo in cui la nostra società democratica è organizzata. Un vasto numero di esseri umani deve cooperare in questa maniera se si vuole vivere insieme come società che funziona in modo tranquillo. In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale, siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone …Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese.”
Edward Bernays, Propaganda, 1929
Bernays lavorò per il governo americano e per l’apparato industriale, e nel campo della propaganda e della pubblicità ottenne i suoi più grandi successi, perfezionando quel particolare meccanismo tuttora usato dai creatori d’opinione.
Prima di Bernays, la pubblicità si concentrava nell’elencare le qualità e i benefici dei prodotti reclamizzati: di una bibita si diceva che fosse dissetante, di un abito che era resistente, di un particolare attrezzo si elencavano i modi d’uso, e così via.
Ci si rivolgeva, in altre parole, alla parte razionale, cosciente, della mente del consumatore.
Edward Bernays rivoluzionò questo meccanismo, e comprese che un prodotto avrebbe potuto essere maggiormente venduto se si rendeva appetibile al consumatore rivolgendosi alla sua parte “inconscia”.

Il prodotto quindi non doveva essere presentato per le sue intrinseche qualità, ma doveva essere proposto in associazione con un sentimento positivo, con una promessa di felicità, con uno stile di vita agognato.
Nel pubblicizzare un biscotto non bisognava soffermarsi sulla sua bontà o sulle sue qualità nutritive, ma occorreva mostrare una famiglia felice in una bella casa che con quel biscotto prendeva la sua prima colazione.
Di una automobile non si doveva fare una lista delle sue prestazioni, ma ritrarla in un paesaggio aperto e solare che suggerisse un senso di libertà.
Bernays, in altre parole, non fece altro che unire gli studi di Freud e di Le Bon con le scoperte del professor Ivan Pavlov a proposito dei riflessi condizionati.

Così come il cane del professore sbavava all’udire il suono del campanellino, associato inconsciamente al cibo, il nuovo consumatore venne abituato ad associare ai prodotti reclamizzati un determinato sentimento.
Nella pubblicità del biscotto, ad esempio, viene mostrata una famiglia felice, in una bella casa.
Per il consumatore tale condizione, la felicità, è l’equivalente di quello che per il cane di Pavlov era il cibo, lo stimolo incondizionato, ovvero il suo bisogno primario.
Il biscotto, associato all’immagine della felicità, è lo stimolo condizionato, quello che per il cane era il suono del campanellino.
Quando poi il consumatore al momento di fare la spesa si troverà di fronte a quel particolare biscotto, entrerà in funzione il meccanismo di associazione, inconsciamente, e sarà portato a scegliere quel prodotto – riflesso condizionato – nello stesso modo in cui la salivazione del cane aumentava al suono del campanellino.
E’ essenziale notare ancora una volta come su tale processo non influiscono le qualità intellettive del consumatore, dal momento che il tutto avviene a livello inconscio.
L’associazione biscotto-felicità è ormai acquisita.

Associazione e ripetizione: la creazione del bisogno
Il successo, indiscutibile, di tale meccanismo, è testimoniato dal fatto che ancora oggi le strategie promozionali ricalcano esattamente le modalità teorizzate da Edward Bernays: le pubblicità attualmente puntano inevitabilmente su concetti semplici che richiamano i bisogni primari di ogni persona: il successo, il senso di libertà, il sesso.
Per reclamizzare una pasta sigillante si mostra una ragazza nuda, un assorbente è associato ad una giovane donna che si lancia col paracadute, le macchine percorrono paesaggi suggestivi oppure si muovono eteree in paesaggi urbani “addomesticati”, mentre gli spaghetti sono sempre accompagnati da famiglie impeccabili e sorridenti che si amano, famiglie perfette.

Quando poi il consumatore si reca nel supermercato e si trova davanti a quel sigillante, ecco che dentro di sé prova una strana sensazione piacevole, senza rendersi conto che la sua psiche nello stesso momento sta immaginando una bella donna nuda immersa in una vasca trasparente.
Tutto questo, però, non sarebbe possibile senza la presenza di un altro fattore, egualmente importante e necessario: la ripetizione.
Nella pubblicità, come nella propaganda, il messaggio va ripetuto più e più volte, perché, ed anche questo è ormai provato, la mente umana tende a considerare veritiere le informazioni ricevute più volte in diverse condizioni.
All’ennesima ripetizione di un concetto, quest’ultimo sarà considerato vero in maniera automatica, e ciò è valido sia sul piano cosciente che a livello inconscio.

Associazione, appello ai bisogni primari, ripetizione: questi, in sintesi, i fondamenti della manipolazione del pensiero.



Il paradosso del potere
Coloro che sostengono la necessità dell’esistenza di un potere centrale sono soliti giustificare la loro convinzione partendo dal presupposto hobbesiano dell’homo homini lupus.
L’essere umano, in altre parole, sarebbe di natura principalmente egoista e violenta, e lasciato solo a se stesso sarebbe naturalmente portato a nuocere ai propri simili, prevaricandoli quando possibile, sopraffacendoli ogni qual volta dovesse averne occasione.
In questa visione, un mondo senza un potere centrale forte, capace di garantire l’ordine e il rispetto delle leggi, sarebbe un mondo violento in preda al caos, poiché l’unico motivo che spingerebbe gli uomini a comportarsi civilmente consisterebbe nella paura della punizione.
Ma se la premessa di tale ragionamento fosse esatta, e gli uomini fossero davvero degli esseri egoisti prevaricatori e crudeli, allora l’affidare ad un gruppo di loro il potere di disporre delle vite dei loro simili sarebbe un’ azione sconsiderata.
I governanti, infatti, essendo egoisti e violenti, in quanto uomini, approfitterebbero del loro status per operare in modo malvagio senza il timore di essere puniti.
E’ quindi facilmente dimostrato che invocare un potere centrale forte come contromisura per placare la presunta ferocia dell’essere umano è atto estremamente incoerente, azione che porta inevitabilmente al verificarsi dello scenario che si voleva evitare, incrementandone oltretutto esponenzialmente gli effetti nefasti.
Se invece si volesse sostenere che i governanti siano esenti dagli istinti egoisti della maggioranza , tale asserzione risulterebbe talmente inconsistente da non meritare nemmeno di essere confutata: non a caso, in ogni epoca storica i peggiori criminali e sociopatici si sono sempre manifestati tra i detentori del potere.

Ma l’intero discorso è fallace in partenza: l’idea stessa di una umanità composta da bestie incontrollabili schiave dei propri istinti omicidi altro non è che propaganda millenaria da sempre usata dai detentori del potere, avente come scopo il giustificare la loro presenza e i loro privilegi all’interno delle comunità.
La maggioranza degli esseri umani, infatti, è composta da individui desiderosi solamente di condurre esistenze tranquille, preferibilmente prive di preoccupazioni materiali, il più possibile pacificamente all’interno del loro contesto sociale.
Non si tratta di una utopica e fantasiosa bontà innata dell’uomo, ma più semplicemente di un naturale istinto di cooperazione, dal momento che gli esseri umani traggono maggiore vantaggio nel collaborare coi propri simili che nell’attaccarli violentemente.

Inoltre, per quanto siano innegabilmente numerosi i difetti e le meschinità di vario grado che caratterizzano ogni singolo essere umano, esiste un sentimento di empatia naturale comune alla maggioranza delle persone, e si tratta propriamente del sentimento di identificazione, quel com-patire che porta il singolo ad immedesimarsi con le sofferenze del suo simile.
Si tratta di un sentimento che può essere più o meno forte, più o meno presente, e che in alcuni contesti si sviluppa maggiormente che in altri.
E per quanto possa essere affievolito, per quanto i sentimenti peggiori possano prevalere nell’animo umano, solo una piccola minoranza di individui arriva al punto di prevaricare fisicamente i propri simili.
Ed è proprio questa minoranza a rappresentare il vero problema di ogni comunità, grande o piccola che sia.

In un contesto ideale la maggioranza pacifica potrebbe essere in grado di isolare questa minoranza, ma questa possibilità viene a meno nel momento in cui la minoranza violenta, composta essenzialmente da psicopatici, riesce ad organizzarsi in modo di poter imporre il suo volere sui molti.
E questo è esattamente lo scopo di ogni potere centrale.
Il potere centrale forte, in altre parole, è il modo in cui la minoranza di violenti e psicopatici riesce a governare ed a tenere a bada la maggioranza degli individui pacifici.
In un secondo momento, coloro che detengono tale potere per giustificare la loro posizione dominante sosterranno la tesi secondo la quale gli uomini hanno necessità di essere governati per evitare che si rechino danno tra loro.

In altre parole, se davvero la maggioranza degli esseri umani fosse composta da egoisti e prepotenti, allora la creazione di un potere centrale equivarrebbe a fare in modo che alcuni tra questi violenti abbiano la possibilità di esercitare la loro malvagità senza alcun limite, dal momento che viene loro garantito il monopolio sulla violenza stessa.
Se invece gli individui crudeli ed asociali componessero una piccola minoranza, la presenza di un potere centrale autorizzato a disporre della vita della comunità rappresenterebbe la perfetta occasione per quei pochi psicopatici di imporre il loro dominio sulla maggioranza.
In ogni caso, l’esistenza di un tale potere, che usufruisce del monopolio sulla violenza, non può che avere come conseguenza l’ascesa ai vertici di comando degli elementi peggiori di una società.




Psicologia delle folle - Folle e condottieri
L’azione inconscia delle folle, sostituendosi all’attività cosciente degli individui, rappresenta una delle caratteristiche dei nostri tempi.
G.Le Bon, 1895.

Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti, si tratti d’un branco di animali o di una folla d’uomini, si mettono istintivamente sotto l’autorità di un capo, cioè di una guida.
Nelle folle umane, il caporione ha una parte notevole.
La sua volontà é il nodo intorno a cui si formano e si identificano le opinioni.
La folla é un gregge che non potrebbe far a meno di un padrone.
Il condottiero quasi sempre é stato prima un fanatico ipnotizzato dall’idea di cui in seguito s’é fatto apostolo.
Quest’idea ha talmente invaso che tutto sparisce all’infuori di essa, e tutte le opinioni contrarie gli sembrano errori e superstizioni.
Così Robespierre, ipnotizzato dalle sue chimereche idee, e che adoperò i procedimenti dell’Inquisizione per propagarle.I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini d’azione.
Sono poco chiaroveggenti, e non potrebbero esserlo, poiché la chiaroveggenza porta generalmente al dubbio e all’inazione.
Appartengono specialmente a quei nevrotici, a quegli eccitati, a quei semi-alienati che rasentano la pazzia.
Per quanto assurda sia l’idea che difendono o lo scopo che vogliono raggiungere, tutti i ragionamenti si smussano contro la loro convinzione.
Il disprezzo e le persecuzioni non fanno che eccitarli maggiormente.
Tutto é sacrificato, interesse personale e famiglia.
Perfino l’istinto di conservazione viene distrutto in essi, a tal punto che, spesso, la sola ricompensa che essi ambiscono é il martirio.
L’intensità della fede dà alle loro parole un grande potere suggestivo.
La moltitudine ascolta sempre l’uomo dotato di volontà forte.
Gli individui riuniti in folla, perdendo ogni volontà, si volgono istintivamente verso chi ne possiede una.

Così scriveva Gustave Le Bon nel suo essenziale Psicologia delle Folle, uno dei testi più importanti per comprendere i meccanismi dell’esercizio del potere nella società moderna.
Le Bon dimostra a tratti una lucidità disarmante, le sue intuizioni stupiscono ancora a distanza di oltre un secolo dalla loro pubblicazione.
La Psicologia delle Folle venne infatti data alle stampe nel 1895.
Per primo Le Bon seppe osservare e descrivere i sentimenti e le spinte che guidano le masse degli individui, e la sua opera, bistratta dal mondo accademico, divenne fonte di ispirazione per i movimenti totalitari che caratterizzarono la storia del XX secolo.
Mussolini e Hitler studiarono attentamente i suoi scritti, mentre nell’Unione Sovietica comunista i suoi libri venivano messi al bando, e contemporaneamente venivano attentamente studiati ed interiorizzati dai membri e dai gerarchi del Partito.
Paradossalmente i maggiori estimatori di Le Bon furono quindi quei condottieri che tristemente segnarono la storia del secolo scorso con le loro gesta, quei capi carismatici e “fanatici” così perfettamente, e profeticamente, descritti nel passo sopra citato.
I trascinatori di folle, figure che di certo non appartengono esclusivamente al passato.

Continua la disamina del testo di Gustave Le Bon “Psicologia delle folle“.
Di seguito, alcuni paragrafi tratti dal primo capitolo: “Caratteristiche generali delle folle – Legge psicologica della loro unità mentale.”




di Gustav Le Bon
Nel senso consueto, la parola folla rappresenta una riunione di individui qualsiasi, qualunque sia la loro nazionalità, la professione e il sesso, qualunque siano i casi che li riuniscano.
Dal punto di vista psicologico, l’espressione “folla” assume un significato ben diverso.
In talune circostanze prestabilite, e soltanto in tali circostanze, un agglomeramento di uomini possiede caratteri nuovi, molto diversi da quelli degli individui di cui esso si compone.
La personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità sono orientate in una stessa direzione.
Si forma un’anima collettiva, senza dubbio passeggera, ma che presenta ben precisi caratteri.
La collettività diventa allora ciò che, per mancanza di una migliore espressione – io chiamerei una folla organizzata, o, se lo preferite, una folla psicologica.
Essa forma un solo essere e si trova sottomessa alla legge dell’unità mentale delle folle. [...]Il fatto più saliente manifestato da una folla psicologica é il seguente: quali si siano gli individui che la compongono, simile o dissimile sia il loro genere di vita, le loro occupazioni, il loro carattere o la loro intelligenza, il solo fatto che essi sono trasformati in folla, li fa partecipi di un’anima collettiva.
Quest’anima li fa sentire, pensare e agire in un modo completamente diverso da come sentirebbero, penserebbero e opererebbero isolatamente.
Certe idee, certi sentimenti non sorgono o non si trasformano in atti se non negli individui che costituiscono folla.[...]

E’ facile constatare come l’individuo che fa parte della folla differisca dall’individuo isolato; ma di una simile differenza le cause sono meno facili a scoprirsi.
Per giungere ad intravederle, bisogna ricordare prima di tutto questa osservazione della psicologia moderna : che non solo nella vita organica, ma anche nel funzionamento dell’intelligenza, i fenomeni incoscienti hanno una parte preponderante.
La vita cosciente dello spirito non rappresenta che una piccolissima parte in confronto alla sua vita incosciente. [...]

Gli uomini più dissimili per intelligenza hanno istinti, passioni, sentimenti a volte identici.
In tutto ciò che é materia di sentimento : religione, politica, morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il livello degli individui comuni.
Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza é spesso nulla o lievissima. [...]

Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e per conseguenza la loro individualità, si cancellano.
L’eterogeneo si sommerge nell’omogeneo, e le qualità incoscienti dominano. [...]

Questa comunanza delle qualità consuete ci spiega perché le folle non saprebbero compiere atti che esigano un’intelligenza elevata.
Le decisioni di interesse generale prese da un’assemblea di uomini scelti, ma di diverse attitudini, non sono sensibilmente superiori alle decisioni che prenderebbe una riunione di imbecilli.
Difatti essi possono soltanto associare quelle qualità mediocri che tutti posseggono.
Le folle accumulano non l’intelligenza, ma la mediocrità. [...]

Delle attente osservazioni sembrano provare che l’individuo, tuffato da qualche tempo in seno ad una folla in fermento, cade in breve in seguito agli effluvi che ne sprigionano, o per altra causa ancora ignorata – in uno stato particolare, simile assai allo stato di fascinazione dell’ipnotizzato tra le mani del suo ipnotizzatore.
Essendo, nell’ipnotizzato, paralizzata la vita del cervello, egli diventa lo schiavo di tutte le attività incoscienti che l’ipnotizzatore dirige a suo talento.
La personalità cosciente é svanita, la volontà e il discernimento aboliti.
Sentimenti e pensieri sono allora orientati nel senso determinato dall’ipnotizzatore.
Questo é all’incirca lo stato dell’individuo che fa parte della folla.
Egli non é più cosciente dei suoi atti.
In lui, come nell’ipnotizzato, mentre certe facoltà sono distrutte, altre possono essere condotte a un grado estremo di esaltazione.
L’influenza di una suggestione lo lancerà con una imperiosità irresistibile verso il compimento di certi atti.[...]

Per il solo fatto di far parte di una folla, l’uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà.
Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è un istintivo, per conseguenza un barbaro.
Egli ha la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi.
Si fa simile ad essi anche per la sua facilità a lasciarsi impressionare da parole, immagini, e guidare ad atti che ledono i suoi interessi più evidenti.
L’individuo della folla é un granello di sabbia in mezzo ad altri granelli di sabbia che il vento solleva a suo capriccio. [...]

Dalle osservazioni precedenti, si conclude che la folla é sempre intellettualmente inferiore all’uomo isolato.
Ma dal punto di vista dei sentimenti e degli atti che questi sentimenti determinano, essa può, seguendo le circostanze, essere peggiore o migliore.
Tutto dipende dal modo col quale essa é suggestionata.
Questo é quanto hanno misconosciuto gli scrittori che hanno studiato le folle solo dal punto di vista criminale.
Certo, spesso esse sono criminali, ma di frequente anche eroiche.
Facilmente sono condotte a farsi uccidere per il trionfo di una fede, di un’idea; vengono entusiasmate per la gloria e l’onore, si conducono quasi senza pane e senz’armi come nelle Crociate, per liberare dagli infedeli la tomba di un Dio, o, come nel 93, per difendere il suolo della patria.
Eroismi evidentemente un po’ incoscienti; ma é con tali eroismi che si fa la storia.
Se si dovessero mettere all’attivo dei popoli soltanto le grandi azioni freddamente ragionate, gli annali del mondo ne registrerebbero ben poche.



Astronavepegasus


   

..........................................................................

Nessun commento:

Posta un commento