sabato 16 giugno 2012

L’UOMO CHE PIANTAVA ALBERI E FACEVA RINASCERE LA SPERANZA
 di Jean Giono 

Per scoprire in un uomo qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di osservarne le opere nell’arco di molti anni. Se queste opere sono libere da ogni forma di egoismo, se il loro motivo guida è la generosità, se è del tutto chiaro che in esse non vi è alcuna ricerca di ricompensa e se, in più, hanno lasciato una traccia visibile sulla terra, allora non ci possono essere dubbi..........



Circa quaranta anni fa feci un lungo giro a piedi in una zona d’alta montagna, completamente sconosciuta ai turisti, in quella antica regione dove le Alpi scendono verso la Provenza. All’epoca in cui intrapresi il mio viaggio a piedi in queste zone solitarie si trattava di un territorio nudo e senza colori. Non ci cresceva niente: solo lavanda selvatica. Traversai la zona nel punto della sua massima ampiezza e dopo tre giorni di cammino mi trovai in mezzo a una desolazione senza pari. Montai la tenda vicino alle rovine di un villaggio abbandonato. 

Ero rimasto senz’acqua dal giorno prima e dovevo trovarne un po’. Il grappolo di case, anche se in rovina, come un nido di vespe vecchio, faceva pensare che ci doveva essere stata una sorgente oppure un pozzo da queste parti. E infatti una fonte c’era, ma era secca. Le cinque o sei case, senza tetto, consumate dal vento e dalle piogge, la piccola chiesa col campanile crollante, stavano là come le case e le chiese dei villaggi vivi, ma ogni forma di vita se n’era andata. 

Era una bella giornata di giugno, con la luce del sole che brillava su tutto, ma sopra questa terra senza un riparo, dall’alto del cielo, il vento soffiava con ferocia indomabile, ringhiando sulle carcasse delle case come un cane disturbato nel suo pasto. Dovetti trasferire il mio accampamento. Dopo cinque ore di cammino non avevo ancora trovato l’acqua e non c’era nulla che mi desse una speranza qualunque di trovarne.
Tutt’intorno a me la stessa siccità, la stessa erba dura.

 Poi mi parve di intravedere in lontananza una piccola sagoma nera, eretta, e la scambiai per il tronco di un albero solitario. Mi diressi senz’altro verso di essa. Era un pastore. Trenta pecore stavano accovacciate attorno a lui sulla terra riarsa.


Un uomo pianta alberi e trasforma un’intera regione.
La sua storia, raccontata, cambia il mondo 2

Mi dette da bere dalla sua borraccia e, un po’ più tardi, mi portò alla sua capanna in un anfratto dell’altipiano. Attingeva l’acqua, buonissima, da un pozzo naturale molto profondo sopra al quale aveva fabbricato una primitiva carrucola. L’uomo parlava poco, come tutti coloro che vivono da soli, ma si sentiva che era sicuro di sé e che aveva fiducia nella propria sicurezza. Era una cosa inattesa in mezzo a una terra così desolata. 

Quella in cui viveva non era propriamente una capanna, ma una vera casa di pietra che manifestava con semplice evidenza come fosse riuscito con le sue forze a ricostruire la rovina che aveva trovato in quel posto quando era arrivato. Il tetto appariva solido e in ottimo stato. Il vento sulle tegole aveva il suono del mare sulla riva. La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento spazzato, il fucile oliato, la minestra bolliva sul fuoco.

 Notai allora che l’uomo era ben rasato e pulito, tutti i suoi bottoni erano bene attaccati e gli abiti che portava erano stati rammendati con la meticolosa cura che rende indivisibili le aggiustature. Divise con me la sua minestra e dopo, quando offrii il mio tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era amichevole senza essere servile. Fin dal primo momento fu scontato che avrei passato la notte in quella casa; il villaggio più vicino era ancora a più di una giornata e mezzo di cammino.

 Per di più conoscevo bene le caratteristiche dei rari villaggi in quella regione. Ce n’erano quattro o cinque sparsi e ben distanti l’uno dall’altro sulle pendici di quelle montagne, fra boschi di querce bianche, dove finivano le strade carrozzabili. Erano abitati da carbonai e la vita era brutta là. Le famiglie, troppo numerose in un clima eccessivamente difficile, sia d’inverno che d’estate, non trovavano scampo all’incessante conflitto di personalità.

 L’ambizione irrazionale raggiungeva proporzioni disordinate nel continuo desiderio di fuga. Gli uomini portavano in città i loro carri di carbonella e poi ritornavano. I caratteri migliori crollavano nelle continue tensioni. Le donne alimentavano le loro lamentele. C’erano rivalità in ogni cosa: dal prezzo della carbonella al banco in chiesa. E al di sopra di tutte queste rivalità c’era il vento che anche lui non smetteva mai di soffiare e punzecchiava i nervi. 

Vi erano epidemie di suicidi e frequenti casi di follia, di solito omicida. Il pastore andò a prendere un piccolo sacco e fece scivolare sul tavolo un mucchio di ghiande. Cominciò ad esaminarle una per una, con grande attenzione e separava le buone dalle cattive.

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Io fumavo la pipa. Mio offrii di aiutarlo ma mi disse che quello era un lavoro suo. E infatti, vedendo la cura e meticolosità che dedicava al suo compito, non insistetti. La nostra conversazione fu tutta qui. Quando ebbe messo da parte una pila abbastanza grande di ghiande buone, le contò dieci per dieci, eliminando ancora quelle piccole o che avevano anche solo una minuscola fessura, infatti adesso le esaminava ancora più da vicino. Quando ebbe scelto in questa maniera cento ghiande perfette, si fermò e andò a dormire. C’era della pace a stare con questo uomo. 

Il giorno dopo chiesi se potevo rimanere a riposare per una giornata. Trovò che la cosa era piuttosto naturale o, per essere più esatti, mi dette l’impressione che nulla lo avrebbe allarmato. Il riposo non era assolutamente necessario, ma ero interessato e desideravo saperne di più sul suo conto. Aprì il recinto e portò il gregge al pascolo. Prima di lasciare la casa, tuffò il suo sacco di ghiande accuratamente scelte e contate, in un secchio d’acqua. 

Notai che come bastone aveva un’asta di ferro grossa come il mio pollice e lunga non più di un metro e mezzo. Per riposarmi dal camminare, seguii una via parallela alla sua. Lui lasciò in consegna il piccolo gregge al cane e si mise ad arrampicarsi verso il luogo dove mi trovavo io. Ebbi paura che stesse per rimproverarmi la mia indiscrezione, ma non si trattava assolutamente di questo: andava proprio da quella parte, e mi invitò ad accompagnarlo se non avevo niente di meglio da fare. Salì fino alla cima del crinale, un centinaio di metri più avanti. 

Là iniziò a bucare la terra con la sua asta di ferro: faceva un foro in cui seminava una ghianda, poi la ricopriva. Stava seminando una quercia. Gli domandai se la terra fosse sua. Rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse proprietà della comunità, o forse era di qualcuno a cui non premeva per nulla. Non gli interessava scoprire a chi appartenesse. Seminò le sue cento ghiande con la massima cura. Dopo il pranzo di mezzogiorno, ricominciò a seminare. Credo di essere stato piuttosto insistente con le mie domande perché mi rispose. 

Tre anni fa aveva cominciato a seminare alberi in questa landa deserta. In questo periodo ne aveva seminati 100.000, dei quali 20.000 erano nati. Di questi 20.000 si aspettava di perderne circa la metà per i roditori o gli imprevedibili disegni della Provvidenza. Sarebbero rimaste 10.000 querce a crescere là dove non c’era stato nulla prima.

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Fu allora che cominciai a pensare all’età di quest’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse. Si chiamava Elzeard Buffier. Un tempo aveva avuto un podere nelle terre giù in piano. Là aveva vissuto la sua vita. Aveva perso l’unico figlio, poi la moglie. Si era ritirato in questa solitudine, dove il suo piacere era vivere a proprio agio con le pecore e il cane; Secondo lui questa terra stava morendo per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo nulla di molto urgente da fare per sé aveva deciso di rimediare a questo stato di cose. 

Poiché in quel periodo, nonostante la mia giovinezza, stavo facendo una vita solitaria, sapevo come trattare con gentilezza gli spiriti solitari. Ma la mia grande giovinezza mi costrinse a considerare il futuro in rapporto a me stesso e ad una certa ricerca di felicità. Gli dissi che fra trent’anni le sue 10.000 querce sarebbero state magnifiche. Rispose semplicemente che se Dio gli avesse dato vita, in trent’anni ne avrebbe seminate così tante che davanti ad esse queste diecimila sarebbero state come una goccia d’acqua nell’oceano.

 Inoltre stava adesso studiando la riproduzione dei faggi e aveva un vivaio di pianticelle nate dalle faggine vicino alla sua casa. Le piantine, che lui proteggeva dalle pecore con una rete di ferro, erano molto belle. Stava anche prendendo in considerazione i faggi per le valli dove, mi disse, c’era una certa quantità di umidità a pochi metri sotto la superficie del terreno. Il giorno dopo ci separammo. L’anno successivo cominciò la guerra del 1914 in cui fui coinvolto per tutti i cinque anni che seguirono. 

Un soldato di fanteria aveva ben poco tempo per pensare agli alberi. A dire il vero, la cosa stessa non mi aveva impressionato; l’avevo considerata come un hobby, una collezione di francobolli e l’avevo dimenticata. Finita la guerra, mi trovai in possesso di una minuscola gratifica di smobilitazione e un grandissimo desiderio di respirare aria fresca per un po’. Non avevo altro obiettivo quando ripresi di nuovo la via verso le terre aride. Il paesaggio non era cambiato. Però, oltre il villaggio abbandonato, intravidi a distanza una specie di nebbiolina grigia che copriva le creste dei monti come un tappeto.Dal giorno precedente avevo cominciato a ripensare al pastore piantatore di alberi. «Diecimila, querce» riflettei, «occupano davvero parecchio posto». Avevo visto troppi uomini morire in quei cinque anni per

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non immaginare facilmente che Elzeard Bouffier fosse morto, specialmente perché a vent’anni si guardano gli uomini di cinquanta come dei vecchi a cui non resta altro da fare che morire. Ma non era morto. Anzi in realtà era estremamente vitale e attivo. Aveva cambiato professione. Adesso gli erano rimaste ancora solo quattro pecore ma, invece, possedeva un centinaio di arnie. 

Aveva dato via le pecore perché erano una minaccia per i suoi giovani alberelli. Per quanto riguarda la guerra, mi disse, (e anch’io me ne accorsi da solo) che non l’aveva disturbato affatto. Aveva imperturbabilmente continuato a piantare. Le querce del 1910 avevano allora dieci anni ed erano più alte di noi due messi insieme. Era uno spettacolo impressionante. Ero letteralmente senza parole e, siccome lui non parlava, passammo tutto il giorno a camminare in silenzio nella sua foresta.

 In tre parti, misurava undici chilometri di lunghezza e nel punto di maggiore larghezza tre chilometri. A pensare che tutto questo era sorto dalle mani e dall’anima di questo unico uomo, sprovvisto di mezzi tecnici, si capisce che gli uomini potrebbero essere efficaci come Dio nei campi diversi da quello della distruzione. Aveva continuato a seguire il suo piano e dei faggi che mi arrivavano alla spalla e crescevano a perdita d’occhio lo confermavano. Mi mostrò dei bei gruppi di faggi piantati cinque anni prima, cioè nel 1915, mentre io combattevo a Verdun.

 Li aveva messi in tutte le valli dove aveva sospettato, e giustamente, che vi fosse umidità vicino alla superficie del terreno. Erano delicati come ragazzine e molto ben radicati. La creazione sembrava svilupparsi come in una sorta di reazione a catena. Ma lui non se ne preoccupava; perseguiva con determinazione il proprio compito in tutta la sua semplicità; ma mentre ritornavamo verso il villaggio, vidi l’acqua scorrere in ruscelli che a memoria d’uomo erano sempre stati secchi. 

Questo era il risultato più impressionante che io avessi visto della reazione a catena. Questi torrenti asciutti, molto tempo fa erano stati pieni d’acqua. Alcuni dei tristi villaggi che ho ricordato prima erano stati costruiti sui luoghi di antichi insediamenti romani, di cui restavano ancora alcune tracce; e gli archeologi avevano trovato ami da pesca negli stessi luoghi dove, nel ventesimo secolo, erano necessarie delle cisterne per assicurare una piccola fornitura d’acqua
Anche il vento spargeva semi. Quando riapparve l’acqua, ricomparvero perciò anche salici, giunchi, prati, giardini, fiori e cominciò a rinascere una
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ragione per vivere. Ma la trasformazione avvenne così gradualmente da diventare parte del disegno ambientale senza provocare nessuna sorpresa. I cacciatori che si erano arrampicati nella zona arida in cerca di lepri o cinghiali, avevano notato ovviamente l’improvvisa crescita di piccoli alberi, ma l’avevano attribuita ad un qualche capriccio della terra. Ecco perché nessuno interferì nel lavoro di Elzeard Bouffier. Se fosse stato scoperto lo avrebbero perseguitato. Ma non poteva essere scoperto. 

Chi nei villaggi o nelle amministrazioni pubbliche si sarebbe mai immaginato una simile perseveranza in una meravigliosa generosità? Per avere una qualche idea precisa di questo carattere eccezionale non si deve dimenticare che lavorò in totale solitudine, così totale che, verso la fine della sua vita, perse l’abitudine a parlare. O forse fu perché si accorse che non ce n’era bisogno. Nel 1933 ricevette la visita di una guardia forestale che gli notificò la proibizione di accendere fuochi fuori della porta di casa per paura di mettere in pericolo la crescita di questa foresta naturale. Era la prima volta, gli disse l’uomo ingenuamente, che avesse mai sentito di una foresta che cresceva spontaneamente. 

A quell’epoca Bouffier stava per cominciare a piantare faggi in una zona a una dozzina di chilometri dalla sua casa. Per evitare di andare avanti e indietro, aveva allora settantacinque anni, decise di costruirsi una capanna di pietra proprio sul luogo dove doveva fare l’impianto. Lo fece l’anno dopo. Nel 1935 un’intera delegazione fu mandata dal Governo a esaminare la «foresta naturale». Ne faceva parte un alto ufficiale del Servizio Forestale di Stato, un deputato, dei tecnici. Vennero fatti molti discorsi intellettuali. 

Fu deciso che si doveva fare qualcosa e, fortunatamente non venne fatto nulla a parte la sola cosa utile: l’intera foresta fu posta sotto la protezione dello Stato e vi furono proibite le carbonaie… era impossibile non venir sedotti dalla bellezza di quei giovani alberi nella pienezza della salute, ed essi gettarono il loro incantesimo sullo stesso deputato. Uno degli ufficiali della guardia forestale della delegazione era un mio amico. A lui spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente andammo insieme da Elzeard Bouffier. Lo trovammo che lavorava forte a una decina di chilometri dal punto in cui era avvenuta l’ispezione.

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Non per nulla questo forestale era mio amico. Conosceva i valori veri. Sapeva mantenere il silenzio. Tirai fuori le uova che avevo portato in dono. Dividemmo il nostro pranzo in tre e passammo diverse ore in silenziosa contemplazione del paesaggio. Nella direzione da cui eravamo venuti le pendici dei monti erano coperte di alberi alti sei o sette metri. Ricordai l’aspetto di questa terra nel 1913: un deserto... Una pacifica, regolare fatica, la vigorosa aria dei monti, frugalità e, sopratutto, la serenità nello spirito avevano infuso in questo vecchio uomo una grande salute.

 Era un atleta di Dio. Mi domandai quanti altri ettari avrebbe ricoperto di alberi. Prima di ripartire il mio amico dette un breve consiglio su certe specie di alberi a cui il suolo qui sembrava particolarmente adatto. Non insistette molto sul suo punto di vista «per l’ottima ragione» disse più tardi, «che Bouffier ne sa più di me». Dopo un’ora di cammino, avendo ripensato a tutta la questione aggiunse, «Lui ne sa molto di più di chiunque. Ha scoperto un modo meraviglioso di essere felice!». Fu grazie a questo funzionario forestale che non solo la foresta ma anche la felicità dell’uomo venne protetta. Affidò questo compito a tre guardie, e le impaurì al punto che rimasero incorruttibili dalle bottiglie di vino che i carbonai potevano offrire. Il solo vero pericolo che corse quest’opera fu durante la guerra del 1939. 

Dato che le automobili in quel periodo andavano a gasogeno (generatori a legna) la legna non bastava mai. Cominciarono i tagli fra le querce del 1910, ma la zona era così lontana da qualsiasi ferrovia che l’iniziativa risultò finanziariamente passiva. Fu abbandonata. Il pastore non si era accorto di niente. Era a una trentina di chilometri di distanza, che continuava pacificamente il suo lavoro, ignorando la guerra del 1939 come aveva ignorato quella del 1914.

L’ultima volta che vidi Elzeard Bouffier fu nel giugno del 1945. Aveva allora ottantasette anni. Avevo ripreso il cammino per tornare lungo la strada attraverso le terre, abbandonate; ma adesso, nonostante il disordine in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che andava su e giù fra la valle della Durance e la montagna. Il fatto che non riconoscessi più gli scenari dei miei primi viaggi pensai che fosse da attribuirsi a questo mezzo di trasporto relativamente veloce. Ci volle il nome di un villaggio per convincermi che mi trovavo veramente nella stessa regione che una volta era stata tutta rovine e desolazione. La corriera mi scaricò a Vergons.
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Nel 1913 questo villaggio di una dozzina di case aveva tre abitanti. A quel tempo erano gente selvatica che si odiava a vicenda, viveva di caccia, poco distante fisicamente e moralmente dalle condizioni dell’uomo preistorico. Tutt’intorno a loro crescevano le ortiche sulle rovine delle case abbandonate. La loro condizione umana era stata allora senza speranza. Per loro non c’era altro da fare che aspettare la morte, una situazione che raramente predispone alla virtù.

 Adesso tutto era cambiato. Anche l’aria. Invece dei venti secchi e aspri che mi assalivano di solito, soffiava una dolce brezza, carica di profumi. Un suono come d’acqua veniva dalle montagne; era il vento nella foresta; e la cosa più stupenda fu di sentire il vero suono dell’acqua che cadeva in uno stagno. Vidi che era stata costruita una fontana, che l’acqua scorreva libera e la cosa che mi toccò di più fu accorgermi che qualcuno ci aveva piantato un tiglio accanto, un tiglio che adesso avrà avuto un quattro anni ed era già pieno di foglie: il simbolo incontestabile della resurrezione. Inoltre, Vergons mostrava i chiari segni di quel tipo di attività che senza la speranza non si può fare. 

La speranza, quindi, era tornata. Le rovine erano state portate via, i muri crollanti tirati giù e cinque case restaurate. Adesso erano ventotto abitanti, quattro dei quali erano coppie di giovani sposi. Le nuove case, intonacate di fresco, erano circondate di orti in cui verdure e fiori crescono in un’ordinata confusione, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedano e anemoni. Era adesso un villaggio dove poteva essere bello vivere. Da quel punto andai avanti a piedi. La guerra appena finita non aveva permesso la piena fioritura della vita, ma Lazzaro era fuori dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna vidi dei piccoli campi di orzo e segale; in fondo a quella valle stretta i prati diventavano verdi.

Ci sono voluti solo otto anni da allora perché l’intero paesaggio arrivasse a risplendere di salute e prosperità. Sul luogo delle rovine che avevo visto nel 1913 adesso vi sono dei bei poderi, intonacati con pulizia, che testimoniano una vita felice e confortevole. I vecchi ruscelli, alimentati dalle piogge e nevi che la foresta conserva, scorrono nuovamente. Le loro acque sono state incanalate. In ogni podere, in boschetti di aceri, stagni d’acqua sorgiva traboccano su tappeti di menta fresca. Un po’ alla volta i villaggi sono stati ricostruiti. Gente dalla pianura, dove la terra è cara, è venuta a stabilirsi qua, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. Lungo le strade adesso si incontrano uomini e donne cordiali, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno recuperato un certo gusto alle

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