martedì 25 settembre 2012

Durakhapalam, la “macchina” indiana per smaterializzare e rimaterializzare il corpo

24/09/2012


Durakhapalam, la “macchina” indiana per smaterializzare e rimaterializzare il corpo

Lo studioso di fenomeni ufologici Ivan Sanderson, nei suoi libri “Uninvited visitors” (New York, 1967 – traduzione italiana: “Ufo: visitatori dal cosmo”, Roma, 1974), “Things” (New York, 1967) e “Invisibile residents” (New York, 1970), ha sostenuto l’ipotesi che, se gli “oggetti volanti non identificati” appaiono e scompaiono in maniera subitanea, come talvolta è stato osservato, potremmo trovarci in presenza di creature invisibili, la cui esistenza si collocherebbe su una scala temporale radicalmente diversa dalla nostra.
Un caso ben noto agli specialisti è quello di un graduato dell’esercito cileno, il caporalmaggiore Armando Valdés Garrido che, il 25 aprile 1977, ala testa della sua pattuglia di sette uomini, fu testimone oculare dell’atterraggio di un “disco volante”. Spintosi in avanscoperta, scomparve alla vista dei suoi soldati in una specie di nebbia violacea, per riapparire 15 minuti dopo, in stato confusionale, “con la barba lunga di cinque giorni e con le lancette dell’orologio bloccate sulla data del 30 aprile”.


Si tratta di un genere di fenomeni la cui natura rimane, per noi, alquanto misteriosa, e per i quali lo studioso americano Meade Layne ha creato la terminologia MAT-DEMAT, ad indicare la materializzazione e la smaterializzazione di corpi umani o alieni e di oggetti, compresi, appunto, i cosiddetti “dischi volanti”. Layne aveva ricevuto la notizia dell’origine ultradimensionale delle creature aliene da un “medium”, nel corso di una seduta spiritica, che ebbe luogo a San Diego, in California, nel 1946.
Del resto, coloro i quali hanno un minimo di dimestichezza con le modalità delle sedute spiritiche, sanno che vi si verificano con frequenza fenomeni di “apporto” ed “asporto” di oggetti, più raramente di creature dall’apparenza umana o animale; ossia la loro comparsa o la scomparsa improvvisa, come se andassero e venissero da un’altra dimensione. Può verificasi, ad esempio, una pioggia di pietre (che, stranamente, di solito non colpiscono i presenti e non provocano alcun danno), che poi rimangono sul pavimento; una caduta di oggetti di uso comune (forbici, ad esempio: che, magari, si infiggono sul tavolo della seduta); un rapido strisciare, correre o saltare di animai quali cani, gatti, volatili; e così via. Questi oggetti e queste entità non conoscono ostacoli fisici, passano attraverso muri e vetrate, irrompono attraverso il tetto o le porte chiuse; in effetti, sembrano comparire dal nulla.

Una fenomenologia analoga è stata osservata a proposito del mistico indiano Sai Baba, il quale sarebbe in grado di far comparire oggetti di vario tipo; ma anche in casi più “umili” e meno spettacolari, come quello di un sacerdote di un paesino pedemontano del Friuli occidentali, del quale si dice che sia in grado di moltiplicare oggetti, come le mele contenute in un cesto, nel corso delle funzioni religiose: fenomeno che ricorda da vicino il miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Ad ogni modo, si tratta di fenomeni che nulla hanno a che fare con l’emissione della caratteristica sostanza gelatinosa dalla bocca (o, più raramente, dal naso o dagli orecchi) del “medium”, nel corso di una seduta spiritica: anche perché, in quest’ultimo caso, si tratta chiaramente della formazione di “simulacri” di oggetti o di parti anatomiche incomplete (teste, mani, ecc.) e non di cose o persone complete e vitali, che “entrano” istantaneamente, e inspiegabilmente, nel nostro campo percettivo e che, altrettanto subitaneamente, possono scomparire.
 
Sappiamo che, in certi ambienti, da anni si parla sottovoce di un misterioso esperimento che la Marina degli Stati Uniti d’America avrebbe compiuto, in un porto dell’Atlantico, negli ultimi tempi della seconda guerra mondiale, che sarebbe consistito nel far “scomparire” una nave da guerra e nel farla “ricomparire” simultaneamente, ad alcune centinaia di chilometri di distanza.
Si tratta del famoso – o famigerato, visto che i membri dell’equipaggio avrebbero subito danni irreversibili al sistema nervoso – “Philadelphia experiment”, sul quale esiste una discreta bibliografia; anche se, ufficialmente, esso non è mai stato riconosciuto dalle Forze Armate di quel Paese e, anzi, è stato esplicitamente e recisamente negato.

Ma, tornando al tema MAT-DEMAT nell’ambito delle ricerche ufologiche, va notato che lo studioso Ugo Dettore, fin dal 1978 (1) ha formulato l’ipotesi che gli “oggetti volanti non identificati” non siano oggetti provenienti da altri mondi, ma da “altre dimensioni”: capaci, cioè, di muoversi in un supposto “iperspazio” che si troverebbe al di là del nostro “continuum” spazio-temporale.
Queste considerazioni sono state esposte, con notevole equilibrio e con spirito critico, dal noto ricercatore e saggista italiano Roberto Pinotti, in uno dei migliori testi usciti su questo argomento nella pur ricchissima bibliografia specialistica: “Ufo, contatto cosmico. Messaggeri e messaggi dal cosmo” (2), nel quale egli ha anche ripreso un articolo di Enrico Caprile apparso negli ani Cinquanta del secolo scorso sul settimanale “Domenica del Corriere”.

Riportiamo il passaggio in questione, per l’eccezionale interesse che presenta, al fine di una miglior comprensione della fenomenologia ufologica, una sua possibile connessone con determinati poteri mentali che gli esseri umani possono coscientemente esercitare e sviluppare, sino a materializzare o smaterializzare oggetti, compreso il proprio stesso corpo fisico.

«Venuti per caso in possesso di una vecchia copia della “Domenica del Corriere”, esattamente quella del 15 dicembre 1957, siamo così rimasti alquanto stupiti nel leggere un articolo a firma Enrico Caprile che, nell’ambito dei fatti più misteriosi della vita, tratta del mitico durakhapalam: magico cubo volante che costruito da misteriosi sacerdoti di un tempio perduto nel Deccan (India), serviva per studiare l’etere e i pianeti.

Ma cerchiamo di riassumere le notizie più importanti al riguardo.

La prima (e forse anche l’unica) fonte di notizie in merito a tale argomento sono gli scritti di Sedir, mistico francese e allievo insieme a Papus del famoso taumaturgo di Lione Monsieur Philippe di cui descrive i più importanti viaggi. Fu proprio durante uno d questi viaggi che il taumaturgo si recò in India, nella regione del Deccan, doveva suo dire esisteva un tempio sotterraneo abitato da una élite di bramini, accessibile soltanto da un passaggio segreto che aveva il proprio ingresso i una città morta, distrutta molto tempo prima da un potentissimo terremoto.

A detta di Sedir, questi sacerdoti, dediti completamente allo studio e alla ricerca, avevano coperto svariate leggi fisiche e psichiche del tutto particolari. Infatti sarebbero stati capaci di fabbricare dei metalli speciali forgiandoli mediante un trattamento sui generis a colpi di martelletto, rendendoli così inattaccabili agli agenti atmosferici e addirittura semitrasparenti. (In occasione delle segnalazioni di UFO del dicembre 1978, a Palermo, il commissario di Polizia Boris Giuliano, poi caduto sotto i colpi della mafia, osservò con un binocolo, sulla verticale del locale Motel Agip uno degli oggetti segnalati sulla città. A suo dire “sembrava una ciambella metallica, e lo scafo appariva simile al rame sbalzato, come se il metallo fosse stato sottoposto all’azione di un martello”. È solo una coincidenza?).

I metalli base preferiti a tal fine erano il rame, l’oro e l’argento che secondo l’autore venivano impiegati con questi particolari procedimenti, del tutto isolati dal magnetismo terrestre e atmosferico e si arricchivano allora d particolari energie e capacità. Con anni di lavoro e di studio e con procedimenti sul genere di quelli descritti, essi avevano infine costruito il durakhapalam, un telemobile, la maggiore delle loro realizzazioni.

La forma di tale oggetto era generalmente cubica e le sue dimensioni erano idonee ad accogliervi comodamente all’interno un uomo in posizione seduta e anche alcuni strumenti. Realizzato con un metallo dai riflessi dorati reso semitrasparente, era posto in una caverna sotterranea a circa venti metri alla superficie terrestre, appoggiato su una sorta di pentacolo disegnato sul pavimento. Il durakhapalam, per poter funzionare, aveva bisogno d essere precedentemente caricato di una energia sonica che veniva fornita, attraverso canali psichici, da sete sacerdoti che per quaranta giorni si erano sottoposti in precedenza a una intensa autoconcentrazione mentale. Tale energia veniva accumulata all’interno del telemobile da uno strumento formato da un grande numero di lamelle di uno speciale cristallo variamente tagliate secondo certe regole, in contatto con l’occupante attraverso due manopole di cristallo congiunte, per mezzo di fili d’argento, ad una specie di particolare accumulatore.

A questo punto il settimo sacerdote entrava nel cubo e, mentre si accomodava seduto afferrando le due manopole per poter comandare il durakhapalam stesso e le pareti di metallo trasparente di questo venivano sigillate con un particolare mastice, iniziava una concentrazione logica con gli occhi semichiusi fissando un disco di oro brunito posto di fronte ai suoi occhi. Nello stesso momento cominciava a mettere in funzione le manopole di cristallo e tutta la cavità era permeata a un “fortissimo sibilo e contemporaneamente da un rombo simile al mare in tempesta”.

Così il duracapalan e il suo pilota si “smaterializzavano” sparendo “in un lampo”; il “doppio” del cubo, trasparente, rimaneva però nella stanza, visibile soltanto ai chiaroveggenti, e serviva così come canale o mezzo di trasmissione delle varie immagini mentali che via via il pilota inviava telepaticamente ai sacerdoti rimasti a terra; immagini dello spazio e di lontani pianeti in cui il cubo si tratteneva in esplorazione per svariati giorni.
Poi il cubo si ‘”materializzava” al ritorno e dal suo interno veniva estratto il pilota in stato catalettico che veniva successivamente sottoposto a speciali trattamenti per riportarlo alla vita e permettergli così di fare il suo rapporto.

Non sappiamo fino a che punti siano vere queste notizie, evidentemente in bilico fra realtà e leggenda, ma dobbiamo ammettere che tali concezioni, precorrenti di parecchio l’odierna teoria “parafisica” sugli UFO, sembrano sempre meno impossibili alla luce delle attuali conoscenze. In effetti è a dir poco impressionante notare nel corso del racconto particolari che frequentemente compaiono nella casistica ufologica e parapsicologica d’oggi. A nostro avviso, in tale descrizione ci sono tre punti da notare principalmente per il loro particolare interesse:
  • il durakhapalam era fatto di un metallo “trasparente”, dunque di apparenza semisolida;
  • il durakhapalam funzionava solo dopo essere stato “ricaricato” dai sette sacerdoti, con un particolare tipo di energia psichica concentrata atta ad illuminarlo di luce e a proiettarlo nello spazio;
  • sia alla partenza che al ritorno del “telemobile” si verificavano situazioni ITF (o MAT e DEMAT) associate alla emissione di acuti sibili e particolari rombi ed anche di lampi di luce.
Descrizioni simili e fenomeni analoghi sono effettivamente frequentissimi nella casistica relativa alla comparsa e scomparsa degli UFO, fin troppo spesso subitanea. Innumerevoli volte abbiamo incontrato casi in cui sono stati avvertiti da testimoni attendibili sibili o rumori sordi e in cui le apparenti materializzazioni o smaterializzazioni sul posto degli oggetti sono precedute da lampi di luce.
E gli UFO sono stati più volte descritti come di apparenza semisolida.
Oggi più che mai ci troviamo a dover dibattere il problema della particolare forma di energia utilizzata dagli UFO per i loro spostamenti; energia che forse influenza talvolta, apparentemente, anche le facoltà psichiche umane, quasi sempre rafforzandole (effetto Psi).
Che legami ci sono tra tutte queste componenti del problema UFO?

Forse delle risposte significative ci possono arrivare dalla reinterpretazione di antiche credenze e di miti perduti, partendo dal presupposto che la questione, pur se relativamente moderna, può avere le sue radici anche nel passato. »

E, dal momento che stiamo parlando di possibili radici antiche della questione ufologica, come non notare le analogie esistenti fra il “durakhapalam” e i celebri “vimana”, sorta di aviogetti dalle enormi capacità distruttive, di cui vi è traccia nei grandi poemi epici dell’India antica, il “Mahabarhata” e il “Ramayana”?

Pare che anche i “Vimana” fossero costruiti in metallo (o in legno), battuti nella forma voluta e poi saldati elettricamente, in modo da non lasciar vedere alcuna giuntura; volavano in cielo producendo un rombo di tuono e compivano evoluzioni tali da lasciare completamente sbalorditi coloro che le osservavano da terra.
Secondo un’altra tradizione, il “durakhapalam” sarebbe la creazione di alcuni mistici tibetani, che era in grado di spostarsi essenzialmente ad opera delle loro preghiere.
A seconda che si metta l’accento sull’aspetto mistico o su quello tecnologico, pertanto, il “durakhapalam” può assumere l’aspetto di una sorta di “disco volante” oppure di un semplice mezzo per facilitare il viaggio astrale, che, evidentemente, è cosa diversa dal viaggio “fisico”, e sia pure attuato per mezzo di smaterializzazione e rimaterializzazione del proprio corpo.

Possono sembrare discorsi di pura fantascienza. Eppure vi sono individui e gruppi che, ancora oggi, credono fermamente che i viaggi astrali verso altri pianeti siano possibili, mediante una adeguata preparazione spirituale e particolari tecniche di concentrazione. Fra essi, ricordiamo i seguaci del culto della Coscienza di Krishna (chiamati anche Hare Krishna), fondato da Bhaktivedanta Swami Prabhupada e tuttora vitale, oltre che in India, in molte parti dell’Occidente, dalla California all’Europa, Italia compresa. Si consulti, in proposito, il libro di Bhaktivedanta S. Prabhupada “Viaggio facile verso altri pianeti”, che, nonostante il titolo ingenuamente grossolano, è basato su una precisa concezione fisica del rapporto fra materia e antimateria e non è affatto così semplicistico come potrebbe apparire al lettore impreparato.
Rifacendosi all’insegnamento della “Bhagavad-Gita”, l’Autore sostiene che il Bhakti-Yoga, tappa finale dello Yoga, come servizio di devozione alla Persona Divina, costituisce una via d’accesso all’universo della antimateria, rendendo possibile lo spostamento verso altri pianeti ed altri universi. Di norma, ciò avviene nell’istante della morte e costituisce il coronamento di una vita pura e dedicata totalmente alla contemplazione della Verità divina.
Scrive l’Autore in proposito: (3)

«Chi non è uno yogi, ma muore in un istante propizio grazie alle austerità, agli atti pii e caritatevoli e ai sacrifici che ha compiuto, può elevarsi fino ai pianeti superiori.
Il perfetto yogi, invece, che riesce a lasciare il suo corpo rimanendo tuttavia pienamente padrone della propria coscienza, può andare a un pianeta all’altro tanto facilmente quanto un uomo comune si reca da un punto all’altro del suo quartiere. Se desidera rimanere nel mondo materiale, potrà godere della vita in differenti modi, giungendo fino ad occupare la posizione di Brahma, sul pianeta Brahmaloka o a visitare anche i Siddhaloka, dove vivono gli esseri materialmente perfetti, capaci di dominare la gravità, lo spazio, il tempo ecc.

 È inutile per questo che egli abbandoni la mente e l’intelligenza (coperture sottili), è sufficiente che si liberi dal suo corpo fisico. Il corpo materiale non è che il rivestimento dell’anima. La mente, l’intelligenza e i falso ego sono i primi involucri e formano il corpo sottile; il corpo fisico, composto di terra, acqua, fuoco, aria ed etere, forma l’involucro esterno. Ogni persona evoluta può lasciare il corpo quando vuole, dopo aver raggiunto la perfezione nello yoga e dopo aver capito le rispettive nature della materia e dell’anima e la relazione che le lega.
Dio ci ha dato una libertà totale e la scelta di vivere dove vogliamo: nell’universo spirituale o in quello materiale, su un pianeta di nostra scelta.

L’abuso di questa indipendenza offerta da Dio ci ha fatto cadere nel mondo materiale e ci obbliga ora a subire le sofferenze generate da questa vita.
Queste sofferenze sono di tre specie: quelle causate dal nostro corpo e dalla nostra mente, quelle che ci sono inflitte dalle altre creature e quelle dovute alle forze della natura. Milton ha bene illustrato nel suo libro “Paradiso perduto” la miserabile vita che l’anima ha scelto di vivere nel mondo materiale. Essa può comunque decidere di riguadagnare questo paradiso e ritornare così da dove è venuta, all’origine di tutte le cose. Si può, in meno di un secondo, raggiungere i pianeti spirituali Vaikuntha e assumere un corpo spirituale che ci permetterà di viverci. Bisognerà solo abbandonare la nostra forma fisica e sottile e lasciare il corpo attraverso l’orifizio del cranio, desiderando uscire dall’universo di materia.»

Inutile insistere sull’analogia fra questo “orifizio del cranio”, attraverso il quale si può abbandonare il mondo di materia, e il settimo “chakra” o “Sahasrara”, che in sanscrito significa “millefoglie”, con riferimento ai petali del loto.
Quando si raggiunge questo livello, significa che si è giunti a fondersi con le energie celestiali, raggiungendo le più alte dimensioni.
Ne abbiamo già parlato nell’ultimo articolo “Infinito e possibilità nell’ontologia di René Guénon”, pertanto non ci dilungheremo ulteriormente su ciò.
Tornando, invece, al “durakhapalam”, osserviamo che, oltre al già citato Roberto Pinotti, altri due autori italiani se ne sono interessati: Peter Kolosimo, una quarantina di anni fa; e, in tempi a noi vicini, Alfredo Lissoni.
Quest’ultimo si è occupato del “durakhapalam” nel secondo capitolo, intitolato “Le conoscenze segrete”, del suo libro “Ufo, impatto cosmico. Guerre atomiche nella valle dell’Indo“, collegandoli, anch’egli, alla fenomenologia UFO e, in particolare, ai leggendari “Vimana”, che sarebbero stati protagonisti, stando a una lettura non preconcetta dei poemi epici indiani, di un vero e proprio conflitto nucleare, avvenuto migliaia di anni fa.
Quanto a Peter Kolosimo, autentico pioniere dell’archeologia misteriosa nel nostro Paese, ha trattato l’argomento del “durakhapalam” nel suo famoso libro “Terra senza tempo” (4), da cui riportiamo il passaggio seguente, significativamente intitolato “Un cubo per l’iperspazio”.

«In fatto di richiami ad un oscuro passato, di sconcertanti manifestazioni extrasensoriali e di leggende cosmiche, anche la grande penisola (indiana) è una miniera inesauribile. Sain-Yves d’Alveydre, un sognatore che si occupò senza troppi scrupoli scientifici dell’Agarthi, vuole che proprio dal regno sotterraneo si sia diffusa la dottrina yoga, e questa storia si sente ripetere da molti santoni, i quali aggiungono che un dominio completo del yoga consente imprese prodigiose. Tali imprese, del resto, vengono chiaramente elencate da un testo precristiano, il Yogasutra, secondo cui consistono nel potere d’ingrandire o rimpicciolire il proprio corpo, d’alleggerirlo sino a renderlo senza peso, di dargli l’invisibilità, nella capacità di raggiungere ogni cosa (non escluse le stelle), d’infrangere con la volontà le barriere naturali (ad esempio attraversando i muri, penetrando nella roccia o nel terreno), di produrre, trasformare o far scomparire qualsiasi oggetto, d’entrare nel corpo, nel cervello e nell’anima d’altre persone.

“Tutto ciò – specifica il Yogasutra – si può ottenere col Samadhi (ascesi, sublimazione), ma se gli dei hanno per nascita questo privilegio, i titani e persino i comuni mortali possono acquisirlo per mezzo delle piante.”
Qualche strambo occultista crede di poterci rivelare che i Naacals, i “grandi fratelli” di Mu, membri di diritto dell’Agarthi, confidarono il segreto degli eletti tibetani, ma gli scettici sogghignano, facendo rilevare che l’accenno a droghe vegetali è più che eloquente e che conosciamo già un mucchio di stupefacenti capaci di darci l’illusione del volo, dell’invisibilità e di tante altre belle cose.
Non dimentichiamo che, in fatto di farmaceutica, gli abitanti dell’India antica erano progreditissimi; sembra che impiegassero, fra l’altro, qualcosa di molto simile alla penicillina, un medicamento noto anche ad altri popoli. Oltre 5 mila anni prima, ad esempio, il primo medico-sacerdote di cui è stata accertata l’esistenza, l’egizio Imhotep, usava una sostanza “tratta dalla terra e dalla decomposizione”, che pareva far miracoli: un antibiotico, dunque!
Sappiamo che i Cinesi ricorrevano a terapie rimesse oggi in uso con grande successo, che gli Indiani praticavano, sotto forma di cerimonia religiosa, la vaccinazione contro il vaiolo; e la loro medicina ayurvedica, che si basava su prodotti vegetai di grandissima efficacia, ci dice come essi la sapessero molto più lunga di noi circa i grandi “depositi” di medicinali esistenti nei boschi.

Alcuni medici orientali, sfogliando il libro della saggezza antica, hanno trovato nuovi, efficacissimi rimedi contro i disturbi circolatori e varie forme di tubercolosi. E l’insigne professor Angelo Viziano, che ha studiato molto da vicino la medicina indiana, ci ha descritto, fra l’altro, i sorprendenti poteri di un’erba detta balucchar, il cui succo “ti dona calma e ti concilia il sonno, solo che te lo passi lievemente sul cuoio capelluto”; lo stesso studioso ha pure accennato a “derivati vegetali ancora segreti”, per mezzo dei quali qualche medico indiano “vince il diabete come se usasse insulina”.

I Russi, comunque, cercano di veder chiaro in queste faccende, e non hanno torto. Se ne avessimo la possibilità, correremmo anche noi a dare un’occhiata da vicino ai misteri indiani, a “fare un giro sul dhurakhapalàm”, come dice, scherzando, chi si occupa della questione.
Le notizie su questo straordinario apparecchio furono lasciate involontariamente in eredità ai Sovietici da Nicola II, il quale si appassionò moltissimo agli studi condotti sul bizzarro argomento da un esperto francese di “scienze occulte”, un tale Sédir. Costui descrisse in un libro dal titolo “Initiations” l’incontro d’un suo maestro con i creatori ed i piloti del misterioso veicolo. Ma l’archivio privato dell’ultimo zar di Russia doveva conservare particolari assai più precisi, avendo il sovrano mantenuto intensi ed amichevoli rapporti con Sédir.
Se vogliamo giungere al “sacro Cape Kennedy” indiano, dobbiamo ancora una volta ricorrere alle leggendarie gallerie: esso sorge, infatti, in un’inaccessibile città morta del Deccan, a cui solo gli iniziati possono giungere, servendosi d’un erto tunnel scavato dalla base alla cima d’una montagna.
I monaci di quel singolare eremo conoscerebbero, fra l’altro, il sistema con cui “isolare i metalli dal magnetismo terrestre”, facendo loro acquistare straordinarie proprietà, rendendoli trasparenti e forniti d’una carica di misteriosa energia. A tanto giungerebbero operando ininterrottamente con speciali martelletti, il cui suono avrebbe un’importanza grandissima nel processo di trasformazione.
Con questo metodo sarebbe stato fabbricato il dhurakhapalàm, un diafano cubo dai riflessi dorati, i lati del quale misurerebbero circa un metro e mezzo. Nell’interno – ci dice Sédir – il pilota siede in una cassetta piena di cenere d’alloro con potere isolante; davanti agli occhi ha un disco d’oro brunito, attraverso il quale controlla la rotta. Gli unici strumenti di manovra sono due manopole di cristallo collegate con fili d’argento ad un accumulatore d’energia sonica.
È principalmente grazie a questa forza ignota che il cubo si muove, pur se alla sua ascesa contribuiscono tutti gli elementi della mistica indiana: con il rombo d’una tempesta, il dhurakhapalàm scompare alla vista degli astanti per tuffarsi in chissà quali dimensioni sconosciute. Esso viaggia nell’iperspazio, descritto come “un nulla grigio attraversato da strisce luminose e da esplosioni biancastre”, per emergere nello spazio, sostarsi con velocità incredibile da pianeta a pianeta, a sole a sole, forse da galassia a galassia.
Può essere che gli studiosi sovietici tendano ad impadronirsi di tali “segreti”?
Noi non crediamo che essi prestino eccessiva fede ai racconti sul dhuarkhapalàm; non è improbabile, però, che vogliano stabilire se queste leggende hanno un sia pur minimo fondamento reale, un fondamento che, sfruttato, possa indirizzare davvero ad una grande conquista scientifica.»

Ci eravamo già occupati di questo ordine di fenomeni in altri saggi ed articoli, in particolare in quello intitolato “Da dove vengono le materializzazioni del pensiero”, e in quello intitolato “Il cane grigio di San Giovanni Bosco: una materializzazione del pensiero?”
Pertanto non aggiungiamo altro, sperando di aver solleticato la fantasia e la curiosità del lettore quanto basta, per spingerlo ad approfondire per proprio conto l’argomento.
di Francesco Lamendola

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