giovedì 31 ottobre 2013


Quando amate qualcuno, dovete essere veramente presenti per l’altro. Ho conosciuto un bambino di dieci anni al quale il padre aveva chiesto cosa desiderasse per il suo compleanno. Il bambino non seppe rispondere: il padre era ricco e avrebbe potuto permettersi di comprargli qualsiasi cosa. Ma il ragazzino disse soltanto: “Papà, voglio te!”. Il padre era sempre troppo occupato e non aveva tempo per la moglie e i figli. Per dimostrare vero amore, dobbiamo renderci disponibili. Se quel padre imparasse a respirare consapevolmente e a essere presente per suo figlio, potrebbe dire: “Figlio mio, sono veramente qui per te”.
Il dono più grande che possiamo fare agli altri è la nostra vera presenza.

“Sono qui per te” è un mantra da pronunciare in perfetta concentrazione. Se siete concentrati, corpo e mente uniti, si rivelerà una vera presenza e qualsiasi cosa diciate diverrà un mantra. Non è necessario usare mantra sanscriti o tibetani, potete usare la vostra lingua: “Caro, sono qui per te”. E se sarete davvero presenti, il mantra compierà un miracolo. Voi, l’altra persona, la vita stessa diventeranno reali in quel momento. In questo modo, porterete felicità a voi stessi e all’ altro.
“So che ci sei e sono molto felice” è il secondo mantra. Quando guardo la luna, respiro profondamente e dico: “Luna piena, so che ci sei e sono molto felice”. Faccio lo stesso con la stella del mattino. La scorsa primavera ero in Corea e camminavo consapevolmente tra le magnolie. Guardai un fiore di magnolia e dissi: ’So che ci sei e sono molto felice’. Essere lì davvero e comprendere che anche l’altro è lì è un miracolo. Se, contemplando un tramonto, ci siete davvero, lo riconoscerete e lo apprezzerete profondamente. Guardando il tramonto, mi sento molto felice. Ogniqualvolta siete davvero lì, potete riconoscere e apprezzare la presenza dell’altro: la luna piena, la stella polare, le magnolie e la persona che amate di più.
Prima di tutto praticate l’inspirazione e l’espirazione profonda, per recuperare voi stessi, poi sedetevi vicino alla persona che amate e, in quello stato di profonda concentrazione, pronunciate il secondo mantra. Sarete felici voi e l’altro insieme. Questi mantra si possono praticare nella vita quotidiana, ma perché funzionino davvero, dovete praticare la consapevolezza del respiro, la meditazione seduta e camminata, di modo da rendere la vostra presenza una vera presenza.
Il terzo mantra è: “Caro, so che soffri”. Ecco perché sono qui per te. Se siete consapevoli, noterete che la persona che amate soffre. Se, quando soffriamo, la persona che ci ama non se ne rende conto, soffriamo di più. È sufficiente praticare il respiro profondo e sedersi vicino, dicendo: “Caro, so che soffri. Ecco perché sono qui per te.” e la sola presenza allevierà molta della sua sofferenza. Siete in grado di farlo qualsiasi sia la vostra età, anche se siete dei bambini.
Il quarto mantra è il più difficile. Si deve praticare quando siete voi a soffrire e credete che la persona che amate sia la causa della vostra sofferenza. Il mantra è: “Caro, soffro. Per favore, aiutami.” Sono solo cinque parole, ma sono molte le persone che non sono in grado di pronunciarle a causa del loro orgoglio. Se qualcun altro avesse fatto o detto quella cosa, non soffrireste così tanto. Ma proprio perché è stata la persona che amate, vi sentite profondamente feriti. Vorreste solo andare a piangere nella vostra stanza. Ma se l’amate veramente, quando soffrite tanto, dovete chiedere il suo aiuto, dovete vincere l’orgoglio.
In Vietnam c’è la storia famosissima di un marito che dovette andare in guerra, lasciando la moglie che era incinta. Tre anni dopo, fu congedato e poté tornare a casa. La moglie andò ad accoglierlo all’ingresso del villaggio, portandosi il figlioletto. Quando marito e moglie si videro, non riuscirono a trattenere le lacrime. Si sentirono grati verso gli antenati che li avevano protetti, perciò il giovane chiese alla moglie di andare al mercato a comprare frutta, fiori e altre offerte da porre sull’altare degli antenati.
Mentre lei era a fare spesa, il giovane chiese al bambino di chiamarlo papà, ma il figlio rifiutò: “Signore, voi non siete il mio papà. Il mio papà veniva ogni sera e la mamma parlava con lui e piangeva. Quando la mamma si sedeva, anche papà si sedeva. Quando la mamma si coricava, anche papà si coricava”. Nell’ udire queste parole, il cuore del giovane si fece di pietra. Quando la donna tornò, egli non riusciva nemmeno a guardarla. Offrì i frutti, i fiori e l’incenso agli antenati, fece le prosternazioni e, poi riavvolse il materassino, senza permettere alla moglie di compiere gli stessi riti, poiché non la considerava degna di presentarsi davanti agli antenati. Ella non comprese il perché di quel modo di agire. Nei giorni successivi, il marito non rimaneva a casa, andava a bere e non tornava che a notte fonda. Alla fine, dopo tre giorni di quella vita, ella non riuscì più a sopportare la situazione e si buttò nel fiume, annegando.
La sera stessa del funerale, quando il padre accese la lampada a cherosene, il bambino esclamò: “Ecco il mio papà!” e indicava l’ombra che il padre proiettava sul muro. “Così veniva papà ogni sera e la mamma parlava e piangeva con lui. Quando la mamma si sedeva, anche lui si sedeva. Quando la mamma si coricava, anche lui si coricava”. “Caro, da quanto tempo sei lontano. Come farò a crescere tutta sola il nostro bambino?” diceva piangendo alla sua ombra. E una sera che il bambino le chiese chi e dove fosse suo padre, ella indicò la sua ombra sul muro e disse: “Ecco tuo padre”. Sentiva così tanto la sua mancanza!
D’improvviso il giovane padre comprese, ma era troppo tardi. Se appena il giorno prima fosse riuscito ad andare dalla moglie a dirle: “Cara, soffro tanto. Nostro figlio parla di un uomo che veniva ogni sera, con cui parlavi e piangevi, che si sedeva quando tu ti sedevi. Chi è?” la donna avrebbe avuto la possibilità di chiarire la situazione. Ma non l’aveva fatto, per orgoglio. Lo stesso era stato per la donna. Anche lei si era sentita ferita profondamente dal comportamento del marito, ma non aveva chiesto il suo aiuto. Avrebbe dovuto praticare il quarto mantra: “Caro, soffro tanto. Per piacere, aiutami. Non capisco perché non mi guardi e non parli con me. Perché non mi permetti di prosternarmi agli antenati? Ho fatto qualcosa di male?”. Se lo avesse fatto, il marito le avrebbe riportato le parole del bambino. Ma anch’ ella, prigioniera del suo orgoglio, non chiese nulla.
Nel vero amore, non c’è posto per l’orgoglio. Non cadete nella stessa trappola. Quando vi sentite feriti dalla persona che amate, quando soffrite per causa sua, ricordate questa storia. Non agite come la madre e il padre del bambino. Non fatevi bloccare dall’ orgoglio, praticate il quarto mantra: “Caro, soffro. Per piacere, aiutami”. Se realmente pensate che l’altro sia la persona che più amate nella vita, dovete farlo. Quando l’altro udrà le vostre parole, tornerà a se stesso e praticherà lo sguardo profondo. Insieme potrete risolvere la questione, riconciliarvi e dissolvere quella percezione.
Tratto da un discorso di Thich Nhat Hanh del ritiro estivo del 1996


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