giovedì 23 luglio 2015

MEDITERRANEO: LA MUSICA DEL RAGNO


di Gianni Lannes
Avete mai pensato a quanti significati possa esprimere o racchiudere la musica? E’ prima di tutto emozione. Ci sono ricordi che rimangono impigliati alle note di una canzone, di un ritornello, di un ritmo. La musica è anche una terapia. Se ne parla sempre più spesso ed è obbligatorio un ritorno al passato perché quasi tutte le civiltà hanno dato sempre straordinaria importanza alle sue virtù curative. Nel Salento ancora fino a pochi decenni fa, una danza particolare veniva impiegata per curare i morsi dei ragni. Era la Puglia che alla fine degli anni ’50 apparve agli occhi dell’etnologo Ernesto De Martino. È il levante d’Italia dove gli echi di un Oriente a portata di orizzonte si leggono nelle arcate neogotiche e moresche degli edifici, traforati dall’aria e dalle piogge, sgretolate dal sole. Qui il ricorso a comportamenti rituali, rappresentava l’unico rifugio possibile: quello in una dimensione simbolica. È nata così la tarantella tipica del Meridione, o meglio del Gargano. Chi non ha mai ascoltato i Cantori di Carpino e il suono della chitarra battente di “Zi Andrea” o il canto di Uccio Aloisi? E’ una danza che deve il suo nome proprio alla tarantola, una specie di ragno e traeva la sua linfa vitale dalle radici del dolore e dell’inquietudine esistenziale. E’ una musica che respira il ritmo vitale del cuore.


Nella terra del Capo d’Otranto, chiusa tra il mare Adriatico e lo Ionio, nel cuore del Mediterraneo dove un tempo pulsò la Magna Grecia, è sopravvissuto il tarantismo, un rituale che affonda le sue radici nel mito greco di Aracne, la fanciulla che osò sfidare la dea Atena in una gara di tessitura e che per questo fu trasformata in ragno. In un mondo contadino chiuso ed emarginato, pagano e popolare, donne e uomini attribuivano al morso del ragno uno stato di malessere esistenziale. L’unica cura era il suono ossessivo di fisarmoniche, violini e tamburelli. Isterie collettive e depressioni cicliche venivano curate col ritmo sincopato del ballo tradizionale del luogo che prende il nome di “pizzica”. Per gli autoctoni la pizzica è la gioia di vivere, la consacrazione alla vita e all’amore. 

Otranto: faro di Palascia - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)


La bella parlata salentina strascica la dolcezza della palatale e fa sì che Lecce e la Terra di Leuca siano barattate dal viaggiatore per un’appendice dell’area linguistica siciliana o toscana. Scomparsa ogni traccia delle tarantate, la pizzica è diventata la colonna sonora di un Sud che vuole riscattarsi e che entra caparbiamente nell’elenco delle musiche di Gaia.  


Se gli schiavi negli Stati Uniti d’America hanno avuto il blues come espressione del dolore, se i giovani dei ghetti neri americani raccontano rabbia e disagio a tempo di rap, i salentini esprimono i loro sentimenti e le loro passioni percuotendo il tamburello e ballando la pizzica fino a raggiungere uno stato di trance. Musica non solo per esprimere ma per comunicare, per dichiarare, per testimoniare il proprio amore impetuoso per un uomo, per una donna, per la propria terra. I gomiti in alto, le braccia roteanti, i piedi piegati in punta. La pizzica di cuore o “pizzica-pizzica”, quella che nella tradizione salentina è sinonimo di corteggiamento e di seduzione è ben diversa dalla danza terapeutica delle tarantate. Il passo a due fra maschio e femmina rivela chiari intenti erotico-sentimentali. Lui le gira intorno con movenze sensuali, lei ondeggia, tenta di sfuggire all’assedio fissando il partner negli occhi, cercando di intuire i segreti del cuore, e costringendolo a ballare sempre più forte, come prova di fedeltà. È il morso d’amore come lo descrive lo stesso Winspeare nel suo film d’esordio Pizzicata che, segna l’ingresso ufficiale della danza salentina nell’universo della celluloide. Siamo nel Salento rurale della seconda guerra mondiale. La protagonista, Cosima, soffre per un amore perduto tragicamente e diventa una tarantata, costretta a ballare la pizzica per liberarsi dalla prostrazione e dal dolore, una danza che resta ancora lo specchio di un’identità culturale, sopravvissuta alla mutazione antropologica, ma ancora lontana da un autentico riscatto.
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/

Nessun commento:

Posta un commento